Storie di speranza e recupero
Mother Warriors
di Jenny McCarthy
Quando al figlio di Jenny McCarthy, Evan, venne diagnosticato l'autismo, la popolarissima attrice americana, compagna di Jim Carrey, non si arrese e con determinazione e fermezza intraprese un difficile percorso per salvare suo figlio e guarirlo attraverso una intensa combinazione di terapia comportamentale, dieta, supplementi e altri interventi biomedici.
Jenny non è sola: con pazienza, coraggio e incredibile forza, migliaia di famiglie hanno ottenuto incredibili risultati nella lotta contro l'autismo. Mother Warriors racconta le loro storie e i percorsi compiuti tra le tante terapie per l'autismo intervistando queste madri guerriere che non si sono mai arrese davanti ad una diagnosi che risuonava come una condanna.
EmergenzAutismo ha chiesto e ottenuto a Jenny il permesso di tradurre alcuni brani di questo suo libro, con l'augurio che queste storie molto coinvolgenti e le informazioni che queste madri vi daranno possano servirvi come conforto e guida nella vostra personale battaglia contro l'autismo.
UNA MADRE GUERRIERA E’….
Una madre cui dicono che non c’è speranza per il suo bambino e che, invece di ritirarsi e lamentarsi, spacca le montagne, rimuove ogni ostacolo, segue il suo intuito anche quando la gente le dice che è pazza.
Una madre che crede nei miracoli ed è capace di proseguire con forza e determinazione, anche quando il suo partner dubita di lei e non le dà alcun aiuto. Una madre che non si arrende (never gives up!) anche quando si sente in un vicolo cieco. Sono queste le donne che continueranno a lottare in modo che le future generazioni di bambini non debbano soffrire così. Sono queste le madri con un cuore di oro e corazze durissime.
So dentro il mio cuore che un giorno questa nostra era verrà indicata come quella in cui un gruppo di genitori combatterono i giganti per salvare i loro bambini e le generazioni future. Margaret Mead, l’ultima grande sociologa, una volta disse “Mai dubitare che un piccolo gruppi di cittadini impegnati e combattivi possa cambiare il mondo: invece è l’unica cosa che avviene sempre”.
Queste sono le donne con cui orgogliosamente cammino e il cui numero spero crescerà . Siamo coloro che cercano un cambiamento, siamo coloro che cercano la verità . Siamo le Madri Guerriere e non ci arrenderemo….will never give up….
CHIAMATA ALL’IMPEGNO COLLETTIVO
E’ ora il momento di chiamare all’azione le madri di tutto il mondo. Quello che sta succedendo non può più essere non notato o peggio discreditato. Si può dire che non c’è scienza a supporto di quanto noi crediamo sulle cause dell’autismo o sul modo di curarlo, ma ci sono troppe evidenze: basta entrare nelle case di famiglie che hanno bambini con autismo. Loro saranno felici di mostrarvi la loro scienza.
Da quando la gente crede ai politici e alle compagnie farmaceutiche? Presto o tardi, quasi tutti vengono corrotti. E’ inevitabile. Ricordate quando ci dissero che fumare andava bene? Ricordate quando ci dissero era causato dalla rigidità di mamme fredde e pigre? Quante volte sono state immessi sul mercato nuovi farmaci, definiti sicuri e poi ritirati a causa dei loro effetti collaterali? Dobbiamo credere che TUTTE le 36 vaccinazioni dateoggi a TUTTI i nostri bambini siano TUTTI sicuri e privi di effetti collaterali? Fermiamoci un attimo a riflettere: dobbiamo berci il fatto che questi vaccini siano adatti a tutti? O che ogni bambino nasca con un sistema immunitario perfetto? Svegliamoci, Americani, e pensiamo alla logica di tutto questo.
Spero che nel frattempo le madri di tutta l’America si uniscano a me in questa battaglia per cambiare questa pazzesca campagna vaccinale e chiedano di RIPULIRE i vaccini. Togliamo le schifezze che ci sono dentro. Il troppo è troppo!
Questi bambini sono qui per un motivo, uno scopo piĂą grande di quello di cui probabilmente sono consapevoli. Ci stanno mostrando la necessitĂ di prenderci cura di noi e del nostro pianeta. Dobbiamo ascoltare il loro messaggio ed assisterli in ogni modo possibile. Loro sono i messaggeri e noi quelli che dobbiamo agire. Per cui cominciamo a FARE qualcosa per questo.
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Il libro si apre con Jenny che ci racconta della sua partecipazione allo show televisivo con piĂą alto audience degli Stati Uniti, la trasmissione di Oprah (molto piĂą del nostro Maurizio Costanzo show), nell'evento "storico" in cui per la prima volta ad una mamma, Jenny appunto, una famosissima attrice, un personaggio noto a tutti, viene consentito di parlare senza censure...
E' giunto il momento di raccontare tutto...
Mi alzai dalla sedia e feci qualche passo, ma mi resi conto che mi era difficile anche solo camminare: le gambe mi tremavano! Guardai il mio bel vestito azzurro polvere che avevo comprato qualche mese fa, si poteva vedere l’orlo che si muoveva per il mio tremore. Mi risedetti sbattendo le ginocchia una contro l'altra, nervosa ed impaurita come una bambina che debba recitare qualcosa davanti alla sua intera classe. La gente mi girava intorno. ma io ero letteralmente paralizzata da quello che stava per succedere. Chiusi gli occhi per cercare di trovare un pò di forza. Come mi trovavo lì? Perchè io?...io che avrei preferito starmene tranquilla senza che il resto del mondo conoscesse il mio dolore. Ero così spaventata....così spaventata...così spaventata!
"Jenny" mi disse il regista "saremo in onda tra cinque minuti. Devi sederti".
Guardai dritta di fronte a me e pregai Dio di darmi la forza, poi ritornai a guardare il regista che mi pose le mani sulle spalle e mi disse "Oprah sarĂ qui tra un minuto".
Aprii bene gli occhi e cominciai a camminare piano, fermandomi un attimo per una preghiera nella buia sala d'attesa in cui avevo aspettato prima; quindi entrai in studio, illuminato dalle luci e stracolmo di donne. Sentii a mala pena il suono dell'applauso che aveva però un tono diverso da quello cui ero abituata: non era l'applauso divertito, di quelli che si fanno con il sorriso sulle labbra, ma era lento, profondo e coinvolto. Mi sedetti sulla mia poltrona e guardai la platea; vidi una stanza colma di circa 500 donne che ora erano in religioso silenzio. Mi guardavano incoraggianti ed io feci un profondo respiro per concentrarmi. Quindi lo studio scoppio in un fragoroso, entusiata applauso ed Oprah entrò, camminando verso di me. L'energia nella sala era elettrica. Lei, calma, salutò i suoi fan che sono certa aspettavano da anni il momento di vederla e dall'espressione del loro viso si vedeva che erano convinti che fosse valsa la pena della lunga attesa. Arrivò davanti a me ed io mi alzai e l'abbracciai. In qualunque altro giorno mi sarei inginocchiata davanti a lei e le avrei baciato le mani, ma oggi era troppo importante per venerarla. Lo sapeva lei e lo sapevo io.
Ci sedemmo ed il regista disse "Due minuti alla diretta".
Oprah sorrise e disse "Mi piace da morire la diretta" e la platea si ammutolì.
Mentre lei riordinava i suoi appunti, mi avvicinai e le dissi sottovoce "La mia intenzione oggi è quella di parlare di speranza, fiducia, guarigione".
Lei sorrise e rispose "Allora ripetiamocelo: l'intenzione dello show oggi è parlare di speranza, fiducia e guarigione". Per l'energia con cui lo disse fui sicura che aveva ragione.
"In diretta tra... CINQUE, QUATTRO, TRE, DUE, UNO".
La voce di Oprah risuonò nel teatro: "Se vostro figlio smettesse di parlare, non vi guardasse negli occhi e ignorasse completamente il mondo intorno a lui, cosa fareste?".
Abituata come sono al mondo dello spettacolo, sapevo che in questo primo segmento avrei avuto a disposizione solo sette minuti per raccontare la mia storia. Cominciai col dirmi "Non piangere, non piangere. Racconta la tua storia Jenny". Feci un respiro profondo e cominciai a parlare pubblicamente per la prima volta degli orribili eventi che mi erano accaduti nei precedenti due anni.
Tutto era cominciato una mattina nel 2005.
Mi ero svegliata con una brutta sensazione, come il presentimento che qualcosa non andasse: l’orologio segnava le 7:45. Pensai che era strano in quanto Evan si svegliava improrogabilmente ogni mattina alle 7:00. Il mio istinto materno mi consigliò di correre nella sua stanzetta. Aprii la porta e corsi al suo lettino e lo trovai in preda alle convulsioni e che respirava a fatica. Aveva gli occhi girati indietro. Lo presi in braccio e cominciai ad urlare con tutto il fiato che avevo. Ci vollero venti minuti perché arrivasse l’ambulanza ed altri venti perché le convulsioni smettessero.
Quando finalmente arrivammo in ospedale, i medici mi dissero che aveva avuto una crisi epilettica febbrile, causata cioè da una febbre alta. Dissi al dottore che Evan non aveva nessuna febbre e lui mi rispose che poteva averla avuta. Tutto questo non mi quadrava molto, ma ritornai a casa con il mio bambino pensando che qualcosa stesse andando davvero male. Non sapevo cosa fosse, ma tutto dentro di me mi urlava che c’era qualcosa che non andava.
Circa tre settimane dopo la prima crisi, Evan ebbe un secondo episodio: eravamo in visita dai nonni quando notai una espressione assente. Lo presi in braccio pensando che fosse stanco, ma un attimo dopo rotolò gli occhi all’indietro e capii che stava succedendo di nuovo. Chiamai immediatamente il 118 e intanto misi su di lui delle pezze fredde ( che è quello che si fa per le crisi epilettiche febbrili). Questa crisi però era diversa: non c’erano convulsioni e non aveva difficoltà a respirare: Dalla bocca gli usciva una schiuma bianca ed era diventato pallidissimo. Gli misi le mani sul petto e cominciai a ripetere “Rimani con me, piccolo, rimani con me”.
Poi accadde il peggio del peggio: sentii il suo cuore fermarsi. Caddi in ginocchio mentre guardavo le sue pupille dilatate e il suo corpo senza vita, mentre arrivarono gli infermieri e gli fecero la rianimazione. Tutto quello che potevo fare era gridare “Perché? Perché? Perché?”. Poi sentii una voce dentro di me dire “Sta andando tutto bene”; non so come riuscii a rimanere così calma nel mezzo dell’inferno in cui ero, ma una sorta di pace aveva pervaso il mio corpo. Dopo due minuti gli infermieri riuscirono a rianimare Evan …io silenziosamente singhiozzavo “Grazie Dio mio, grazie!”
Siccome non c'erano elicotteri disponibili, dovemmo trasportare Evan fino all'ospedale di Los Angeles in ambulanza. Furono tre ore di viaggio durante le quali ebbe un'altra crisi. In ospedale ebbe altre sette crisi in sette ore e dopo due giorni che eravamo là chiedendoci cosa stava succedendo, mi diedero la diagnosi di epilessia. Il mio istinto però mi urlava che c'era dell'altro. Decisi di sentire una seconda opinione e lo portai da uno dei migliori neurologi del mondo. Affettuosamente lui mi pose una mano sulle mie e mi disse "Mi dispiace, tuo figlio ha l'autismo".
Mi sentii morire in quel momento, ma il mio istinto mi disse che quell’uomo aveva ragione: tutte quelle meravigliose caratteristiche che io pensavo fossero di Evan, lo sfarfallare le mani, il camminare sulle punte, il giocare sbattendo le porte e l'allineare i giocattoli, non erano caratteristiche di Evan. Cos'era mio figlio se non era quelle cose? Il neurologo vide l'espressione del mio viso e mi disse " Cara, è lo stesso bambino con cui sei venuta qui. Non è cambiato. E' lo stesso bambino". Guardai il dottore e gli risposi "No, non è lo stesso. Mio figlio è intrappolato in qualcosa che si chiama autismo e io lo rivoglio".
Quando finii di raccontare la storia di quanto passato con Evan, Oprah mi sorrise orgogliosa e annunciò: "Torniamo subito!".
Feci un respiro profondo e mi sistemai sulla sedia pensando che la parte piĂą difficile era passata. Sapevo che a casa milioni di madri aspettavano da anni il momento che sarebbe venuto dopo la pubblicitĂ , madri che erano state azzittite, madri che i pediatri dei loro bambini avevano definito stupide ed ignoranti, madri che erano state accusate di aver causato l'autismo dei loro figli con la loro negligenza, madri che aspettavano da anni una persona che fosse ascoltata dai media e dicesse quello che loro stavano urlando da un intero decennio. Questo era il mio momento, era il loro. Ero la loro voce ed ero pronta a parlare grazie a questa donna straordinaria che me lo aveva consentito.
"CINQUE, QUATTRO, TRE, DUE, UNO".
Quando si accese la luce rossa sulla telecamera e ritornammo in onda, Oprah mi chiese di spiegare perchè pensavo che Evan fosse diventato autistico. In quel momento mi venne da sorridere. Dapprima non potevo davvero credere che stessi sorridendo in TV, urlando a me stessa "Ma perchè stai sorridendo? Perchè?". E poi mi fu chiaro: Oprah mi stava finalmente dando la possibilità di parlare dell'autismo di Evan senza censure. Questo era il perchè del mio sorriso: la verità sarebbe uscita dalle mie labbra.
"Le statistiche sono di 1 ogni 150. Vorrei sapere quali numeri dovrebbero esserci, quali numeri farebbero ascoltare tutti le madri dei bambini che hanno l'autismo e che dicono da anni questo... noi vacciniamo i nostri bambini e accade QUALCOSA. Accade QUALCOSA. Perchè nessuno vuole crederci?”
Il pubblico cominciò ad applaudire, di nuovo quell'applauso profondo, coinvolto. Mi guardai intorno e vidi le lacrime sui visi delle mamme che sapevo avere bambini con autismo. Sembrava che la loro rabbia fosse stata liberata in quel breve momento.
Continuai a parlare di come il CDC agisse come se i vaccini andassero bene per tutti, come se potessero essere somministrati nello stesso numero a tutti i bambini senza rispettare l'individualitĂ di ogni singolo individuo e il suo profilo biologico e sentivo qualcosa di piĂą profondo, sentivo l'energia collettiva di tutte le mamme, ovunque, le sentivo saltare di gioia, le sentivo attaccate allo schermo TV, piangere e alzare le braccia, le sentivo chiamare le loro madri al telefono "Stai sentendo anche tu, mamma? Lo ha detto!!".
Oprah terminò con una dichiarazione del CDC che diceva che non c'era alcuna scienza a supporto della connessione tra vaccini e autismo. Non potevo dirlo, ma pensai " A che serve la scienza quando lo sto vivendo ogni giorno a casa mia? L'ho visto accadere". Risposi con tutto l'amore che potevo far sgorgare dal mio cuore "Per me Evan è la mia scienza".
Oprah sorrise alla telecamera e annunciò di nuovo la pubblicità . Appena vidi spegnersi la luce rossa, mi alzai e camminai un pò per stendermi i nervi. Avevo appena scoperchiato un verminaio e non ero sicura di quale sarebbe stata la reazione. Allontanai le mie preoccupazioni e cercai di concentrarmi. Oggi era stata la prima volta in cui era stato consentito a qualcuno di parlare liberamente dei vaccini ed Oprah era stata la prima a permetterlo. Per molte persone questa era una novità , ma le madri che avevano i bambini nello spettro autistico sapevano già . Le persone cui parliamo del legame tra vaccini e autismo ci dicono che siamo pazzi o disperati da biasimare, ma noi viviamo con i nostri bambini e li abbiamo visti soffrire. Potrei capire se si trattasse solo di poche madri, ma ad urlare che qualcosa accade ai bambini dopo che vengono vaccinati sono milioni di mamme. Penso sia giunto il momento che il mondo ascolti cosa dicono.
Mi risedetti e guardai Oprah. Mi sorrideva calorosamente e capii che era orgogliosa che avessi parlato con il cuore. Ero adesso eccitata per il segmento successivo in quanto avrei parlato di guarigione. Sapevo che molte persone che stavano guardando il programma non sanno che i bambini con autismo possono guarire e che persino i genitori con bambini con autismo non sono informati di questo. Per me la parte piĂą difficile era sapere che i trattamenti di cui avrei parlato non erano rimborsabili. La gente doveva saperlo e doveva sapere anche che i pediatri non li prescrivevano.
Spiegai ad Oprah che con una dieta adeguata i bambini stavano meglio, parlai della connessione intestino – cervello: “Ripulire l’intestino migliora il cervello. C’è collegamento” dissi.
Un dottore una volta mi disse che se la gente non crede nella connessione intestino – cervello bisognerebbe dirgli di verificare questa teoria in un bar: ordinate un drink e vedete cosa accade. Ho potuto verificare con mio figlio come il cibo alteri la risposta cerebrale. In due settimane dall’inizio della dieta, Evan aveva raddoppiato il suo vocabolario e la nebbia che sembrava avvolgerlo era improvvisamente scomparsa.
Oprah disse che aveva sentito tanta gente per cui la dieta non aveva funzionato. Volevo rispondere “Si, lo so e questo mi addolora in un modo che nessuno può capire: so cosa significa essere mamma e sperare in un miracolo e non vederlo arrivare. Ma so che per MOLTI bambini funziona. Per i bambini che riescono a parlare per la prima volta o a sorridere per la prima volta perché queste informazioni vengono date ai loro genitori vale la pena. “. Ma il mio tempo stava per scadere per cui dissi:” Sono solo una mamma che racconta una storia che riassume molte storie di altre madri. I nostri bambini STANNO meglio. E’ come la chemioterapia: non funziona per tutti i malati di cancro, ma si deve provare”.
Oprah disse “E’ vero”.
Quando poi andò nuovamente in onda la pubblicità sapevo che il mio compito volgeva alla fine. Chiusi gli occhi e chiesi a Dio di illuminarmi su quello che dovevo dire perché stava arrivando l’ultimo segmento. Sedetti in silenzio per un momento mentre Oprah parlava a Holly Robinson Peete. Poi toccava a me….
Alzai gli occhi e vidi Oprah che mi fissava. “Forza Jenny, vai! Devi dire quello che vuoi. Hai l’ultima parola”.
Guardai la telecamera e tutte le mamme che mi guardavano ansiose e capii che era l’ultima parte del programma e dovevo parlare. Dissi:”Non vi sentite in colpa se vostro figlio ha l’autismo. Non è colpa vostra. Concentratevi sul recupero di vostro figlio e credete nel vostro istinto”.
Oprah sorrise e disse “… e QUELLO CHE VA BENE PER UNO, NON VA BENE PER TUTTI!”.
Avrei voluto saltare dalla sedia e darle un grossissimo bacio, ma sapevo che probabilmente non mi sarebbe stato più chiesto di ritornare alla trasmissione, per cui risposi semplicemente, “Si, quello che va bene per uno non va bene per tutti”.
Il regista disse “Abbiamo finito”. Le luci della telecamera si spensero e tutti si alzarono. Andai verso Oprah e le dissi, “Grazie da parte di migliaia di mamme per avermi permesso di parlare e di dire la nostra verità ”. Lei mi diede un forte abbraccio che sentii pieno di affetto, calore e gratitudine. Non c’era bisogno le dicessi quanto fosse profonda l’importanza della sua trasmissione per noi: lo sentiva già . Ritornai nel camerino sollevata e dissi una piccola preghiera perché la mia intenzione di offrire speranza, fiducia e la possibilità di recupero arrivasse alle famiglie.
Più tardi, quella sera stessa, mi sedetti al computer per rispondere alle e-mail che sarebbero arrivate per me all’indirizzo di oprah.com, come avevo promesso. Ogni volta che provavo a connettermi, mi dava “password non corretta”. Ero così frustrata: mi immaginavo quelle mamme che scrivevano freneticamente e aspettavano la mia risposta ed ero molto mortificata dal non riuscire a poter loro rispondere.
Alla fine chiamai in produzione al telefono e mi dissero, “Il sistema non ha retto: dopo la trasmissione ci sono stati 2500 click al secondo e questo ha mandato tutto in tilt”. In effetti non ero sorpresa: sapevo che la trasmissione avrebbe avuto un simile impatto, dal momento che nessuno fino a questo momento aveva parlato di vaccini e, cosa ancora più importante, di guarigione! Avevo anche detto come la dieta senza glutine e caseina stesse aiutando i bambini con autismo, una teoria che era stata sempre controversa. Ero sicura ci sarebbero state polemiche e mi interessava vedere cosa avrebbe detto la gente della dieta. Volevo sapere se altri l’avessero provata o di qualunque altra terapia avesse fatto stare meglio i loro bambini.
Due giorni dopo oprah.com riprese a funzionare e potetti finalmente leggere alcune delle e-mail che erano state postate. Mamme dopo mamme riferivano di miglioramenti simili dopo aver cambiato la dieta del loro bambino e provato altri trattamenti biomedici come l’ossigeno terapia e la detossificazione dai metalli. Ero così felice che il resto del mondo avrebbe visto ora che Evan non era il solo. Guarire è una possibilità che ha ogni bambino con autismo. Speranza, fiducia, guarigione. Che desiderio straordinario!
Era passata un’intera settimana dalla mia partecipazione a Oprah e ancora non ero sicura quale era stata la reazione nel paese: camminavo aspettandomi sempre che qualcuno mi abbracciasse o si scagliasse contro di me! Ero anche un po’ spaventata dalle compagnie farmaceutiche. Se la mia vita fosse stata un film, il Center for Disease Control (CDC) e le aziende farmaceutiche avrebbero potuto avere riunioni segrete per tramare come screditarmi o azzittirmi.
Durante la campagna che stavo facendo a New York per il mio libro Louder Than Words, ero molto nervosa: sapevo che Oprah era molto aperta e comprendeva ciò che avevo detto, ma avevo una strana sensazione nello stomaco come se qualcuno avrebbe cercato di farmi del male. Sapevo durante il tour che il dolore che avevo provato con Evan sarebbe stato talvolta offuscato dalle controversie sull’autismo, ma era per me importante mandare il messaggio su grande scala. Tenni il mio cuore aperto, ben sapendo che qualunque cosa fosse accaduta sarebbe stata per il miglior motivo possibile.
Ma avevo già provato talmente tanto dolore e speravo di non doverne provare altro solo per aver detto la verità . Stavo scoprendo che c’erano tante mamme come me che erano state trattate come stupide per aver parlato di questa verità e volevo provare ad abbattere dei muri.
Immaginate
Immaginate di vedere vostro figlio fare un volo dalle scale. Lo vedete scivolare e farsi male ad un ginocchio che comincia a perdere sangue. La ferita è profonda e voi ripulite immediatamente dal sangue, fasciate il ginocchio e lo portate in ospedale. arrivati, il dottore vi chiede cosa è accaduto. Spiegate che stava salendo le scale, ma è caduto e si è fatto male.
Ora immaginate che il dottore vi dica che non è possibile che vostro figlio si sia fatto male cadendo dalle scale. “Ma io l’ho visto salire sulle scale e cadere e ho visto il suo ginocchio ferirsi”, spiegate.
Ma il dottore dice, “Non è possibile”.
E voi ripetete, “Ma io l’ho visto mentre accadeva!”.
Allora il dottore vi dice che salire le scale è sicuro. Ma voi sapete che vostro figlio è caduto, perché lo avete visto con i vostri occhi, e insistete, “Ma ovviamente a volte NON è sicuro. Guardi mio figlio, veda come si è ferito!”
Il dottore si limita a scuotere la testa e continua a negare che le scale possano far male a nessun bambino.
Questo è quanto succede, nero su bianco, a noi mamme che abbiamo bambini con autismo. Abbiamo dei bellissimi bambini, pieni di salute che salgono perfettamente le scale finchè un gradino li fa cadere. Abbiamo testimoniato i danni neurologici che abbiamo visto nei nostri bambini dopo le vaccinazioni, ma quando diciamo ai medici ciò che abbiamo visto, loro non ci credono. Potete immaginare come questo sia frustrante?
Facciamo un passo avanti, continuando con il paragone delle scale. Dopo che il dottore non accetta quanto dite, decidete di curare la ferita voi stesse. Apprendete che esistono terapie naturali e alternative, che provate e il ginocchio del vostro bambino guarisce ad un punto tale che rimane a mala pena un segno. Immaginate ora di andare dal dottore per una visita di controllo e di trovarvi davanti un diverso medico che guarda il ginocchio di vostro figlio e dice, “Questo deve essere il ginocchio sbagliato”.
Voi spiegate, “No, è il ginocchio che si era ferito”.
Il dottore dice, “Non può essere, perché è guarito: Una ferita del genere non può in alcun modo guarire. L’ospedale deve aver sbagliato nel giudicarne la gravità ”.
Voi replicate, “No dottore, sono stata io stessa a guarire la ferita pulendola e curandola con rimedi naturali”.
Il dottore a questo punto vi guarda in modo strano. Comincia a ridere di voi e dice che, tanto per cominciare, vostro figlio non ha mai avuto una ferita aperta. Voi gli siete davanti a bocca aperta. “Si invece dottore, ce l’aveva e come! Guardate i referti medici: è stato ricoverato in questo VOSTRO ospedale!”.
Il dottore risponde, “Deve esserci stato un errore in questi referti. Non ha mai avuto una ferita qui”.
Questo è esattamente cosa succede quando un bambino con autismo sta meglio. La gente pensa che questi bambini guariti siano stati diagnosticati male. La ragione per cui la guarigione è controversa è che li stiamo curando trattando i danni causati dai vaccini o dalle tossine ambientali piuttosto che l’autismo stesso. Quando trattiamo queste cose, i sintomi dell’autismo migliorano. La comunità medica è terrorizzata dall’ammettere la necessità di dover aiutare questi bambini a detossificare i metalli, perché questo significherebbe puntare il dito verso quello che tutti sono così spaventati di ammettere: i vaccini POSSONO scatenare l’autismo.
Ci sono due controversie sull’autismo: la prima consiste nelle cause, e la seconda nella possibilità di una guarigione. Nella comunità medica infuria una vera e propria battaglia, ma c’è una sempre più numerosa armata di madri che stanno combattendo per i loro bambini e testimoniano direttamente la guarigione. Immaginate un mondo in cui noi tutti combattiamo dalla stessa parte per aiutare i bambini con autismo a stare meglio. Ora è il momento di unirsi.
“Non sono pazza!”
Quando seppi per la prima volta della dieta e dei supplementi che stavano aiutando i bambini con autismo, dissi, “Perché non parlano di questo in televisione alla trasmissione 20/20? Perché la gente non lo sa?”. Durante il tour per pubblicizzare il libro Louder Than Word, fui invitata a 20/20 proprio per discutere di questo. Sono così riconoscente a 20/20 per aver trovato il coraggio di affrontare questo argomento. Chiedevo a Dio durante il tour di mandarmi solo giornalisti che potevano aiutarmi a diffondere il messaggio chiaramente e avere Deborah Roberts come intervistatrice in quella occasione fu una vera benedizione: venne fuori che, sebbene a suo figlio non fosse stato diagnosticato l’autismo, aveva un qualche ritardo dello sviluppo e si rivelò interessata a provare la dieta. Gliela consigliai perché sapevo che la dieta aiuta anche bambini che non sono nello spettro dell’autismo.
Durante l’intervista, parlai a lungo dei vaccini, ma 20/20 tagliò quella parte che non andò mai in onda. In molti pensarono che avessi avuto paura, ma non era stato così, anzi era stata una delle migliori interviste informative che abbia mai rilasciato sui vaccini. Preferirono focalizzarsi sulla dieta e sul fatto che i bambini stessero meglio. Non potetti farci nulla!
Dopo che l’intervista andò in onda, Deborah Roberts mi chiamò per dirmi che aveva cominciato la dieta con suo figlio e stava vedendo dei miglioramenti. Molti altri in seguito, andando avanti nel mio percorso, mi hanno riferito le stesse cose.
Mentre camminavo nell’aeroporto JFK, una donna è corsa verso di me e ha cominciato a gridare, “Grazie! Grazie!”. All’inizio non ho capito di che si trattava: nella mia carriera , erano gli uomini ad apostrofarmi negli aeroporti, “Belle tette!”, ma non era mai successo che una donna mi dicesse “Grazie!”. Credo che questo abbia veramente segnato un punto di inversione nella composizione del mio pubblico di fan. Mi fermai e le sorrisi prima di entrare in macchina; gli occhi le stavano uscendo dalle orbite e mi guardava come stesse vedendo Babbo Natale. Ansimando e con voce emozionata, mi disse “Grazie! Grazie perché ora la gente …ora la gente smetterà di pensare che sono pazza”. Mi mise le braccia intorno al collo e mi strinse forte in un abbraccio caloroso. Non potetti spiegare alla gente con cui viaggiavo che non aveva alcuna idea di quello che lei voleva dire, ma sorrisi, le restituii l’abbraccio e rimanemmo strette così mentre la gente ci ruotava intorno.
Molte mamme come questa donna dicono che le loro madri, le suocere e le loro migliori amiche le ritengono pazze per il fatto che credono nell’implicazione dei vaccini e che supplementi nutrizionali e detox giochino un ruolo importante nella guarigione dei loro bambini. Il fatto che io abbia in qualche modo come “validato” le esperienze di queste donne le fa sentire meno sole nella loro verità . L’ironia è che le persone intorno a ME non mi hanno creduto finchè sono andata da Oprah: solo allora anche la mia verità è stata validata. Mi separai delicatamente da lei e dissi, “Ti capisco perfettamente”. Lei mi sorrise e mi urlò, “Non ti fermare”, e si allontanò.
Giunta in macchina, pensai come tutto fosse perfetto. Credo nelle manifestazioni, e credo che l’energia collettiva di tutte le donne che stavano aspettando che qualcuno parlasse per loro mi aveva spinta ad essere quel qualcuno. Per la verità sarebbe stato meglio per me se questo qualcuno fosse stato un altro: avrei potuto guardare mio figlio litigare con gli altri bambini a scuola o giocare una partita di calcio, non avrei mai dovuto affrontare attese senza fine in un Pronto Soccorso o avere terapisti su terapisti in casa, o dover combattere con campioni di feci o raccolta di urine. Ma queste mamme avevano bisogno di una con le palle, qualcuno che venisse invitato nei talk show e, cosa più importante, una mamma che conoscesse l’inferno di questa malattia.
Guardai il cielo e mandai a queste mamme un messaggio dal cuore: “Sono qui e farò quello che devo fare. Non voglio abbandonarvi. Non starò zitta. Ci sono, si, ci sono. Sono qui”.
La fortissima Diane Sawyer!
Sedevo nella mia poltroncina sul set di Good Morning America con lo stomaco pieno di farfalle. Non avevo mai partecipato prima a questo programma anche se Louder Than Words era il mio quarto libro. Non si erano mai interessati a niente di ciò che avevo da dire in passato e non li potevo certo accusare di questo: tutto quello che apparteneva al mio passato sembrava ora futile.
Mentre cercavo di sedere come una signora e non come una camionista, notai che il mio seno sinistro si muoveva convulsamente: il cuore mi batteva così forte che il seno si alzava e si abbassava. Guardai il cameramen e il direttore di produzione sul set per vedere se lo avessero notato anche loro, ma nessuno sembrava accorgersene. Io però non riuscivo a distogliere gli occhi dal mio seno “invasato”. Chiusi gli occhi e pregai di non avere un attacco di cuore in diretta TV; li riaprii e vidi Diane Sawyer venire verso di me. Ero stata una sua fan e non avevo mai pensato che un giorno mi avrebbe intervistato, ma ora lei era qui, proprio per intervistare me, sapendo che avevo un messaggio importante da dare e che il mondo era pronto per ascoltarlo. ero davvero onorata!
Diane fu bravissima nell’introdurmi e guidarmi. A metà dell’intervista notai che la sua copia del mio libro aveva delle orecchie, era sottolineata con l’evidenziatore e aveva delle fitte note scritte ai margini. Il mio libro nelle sue mani era “vissuto” e non potevo essere più orgogliosa di questo. Diane Sawyer aveva veramente letto la mia storia, e non solo lo aveva letto, ma ci aveva fatto delle riflessioni. Molti potrebbero pensare, ”E’ ovvio che lo abbia letto, ti doveva intervistare!”. Ma non è sempre così: infatti la maggior parte degli intervistatori televisivi non legge i libri degli autori che deve intervistare. Generalmente li legge la redazione e fa un riassunto per l’intervistatore, preparando anche le domande. Ma non Diane. Ci aveva lavorato, e io ne ero onorata.
Mentre parlavamo di come la comunità medica non capisce che i bambini con autismo sono veramente fisicamente malati e di come i pediatri in tutto il paese non hanno idea di come aiutarli, mi resi conto che questa era una cosa che dovevo sottolineare con più forza. quasi tutte le mamme che conosco con un bambino nello spettro autistico era andate da un pediatra che NON AVEVA IDEA che in questi bambini ci sono alcuni sintomi. I bambini con autismo hanno spesso un intestino permeabile, un sistema immunitario difettoso, infiammazione, allergie alimentari, eczema, stitichezza, crescita di funghi, e di virus, problemi di tiroide e di colesterolo. I pediatri dicono ai genitori che stiamo esagerando, che tutti i bambini possono essere stitici o che la diarrea fa solo parte dell’autismo. Ci dicono che la candida non è un problema reale. Mentre parlavo con Diane, decisi che dovevo fare qualcosa per farmi sentire nel mondo dei pediatri non appena la trasmissione fosse finita.
L’intervista volgeva al termine ed ero davvero contenta di averla potuta fare. Non avevo avuto un attacco di cuore in diretta TV, anzi ero piena di energie perché volevo condurre la battaglia contro i pediatri e Diane Sawyer non aveva visto il mio seno battere il ritmo del mio cuore.
Michelle Woods: madre guerriero di Kevin
Incontrai Michelle ad una conferenza sull’autismo ad Atlanta. Venne verso di me con una espressione di determinazione sul viso. Era quel tipo di donna che non avreste mai pensato potesse avere tanta forza, ma mi bastò uno sguardo nei suoi occhi per riconoscervi la presenza di un guerriero. Attraversò la sala e mi porse un DVD. “Ho guarito mio figlio e ho una storia da raccontare”, mi sussurrò.
Tornai nella mia stanza i hotel e guardai il suo DVD. Era un video – cronistoria di lei e suo figlio negli anni. Ascoltai la determinazione nella sua voce mentre parlava con suo figlio, che ovviamente nemmeno si accorgeva di lei. La guardai passare quel periodo da sola, senza un marito che la supportasse, cosa tristemente comune. La guardai mentre suo figlio migliorava e progrediva dicendo le prime parole e poi cominciando a conversare. Suo figlio aveva talmente tanti problemi di salute che era un vero miracolo che avesse avuto tutti quei miglioramenti. Il fatto che era guarito era sorprendente anche per me. Dopo aver guardato il DVD che aveva voluto condividere con me, e dopo aver ascoltato la sua storia, sapevo che aveva tutte le credenziali di una mamma guerriera. Per cui voglio raccontarvi la sua storia.
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Il giorno della diagnosi, portai Kevin al Centro TEACCH che si trova all’Università del North Carolina a Chapel Hill. Aveva 19 mesi. La valutazione era stata molto dura per me perché Kevin, fino a quel momento, non si era praticamente mai separato da me. Lo presero e lo portarono in una stanza con la persona che doveva valutarlo, mentre io e il mio ex marito aspettavamo in un’altra stanza. Mentre ci intervistavano per sapere cosa Kevin facesse a casa, lo sentivamo urlare e piangere. sembrava lo stessero torturando. Fu così traumatico per me perché lui era un bambino sempre debole e ammalato e lo avevo lasciato in una stanza da solo con estranei. Era una tortura.
Ascoltare Michell parlare della prima valutazione di Kevin mi ricordò il dolore provato nella stessa circostanza per Evan. Ricordo come mi sentivo il cuore andare in pezzi, non solo sentendolo piangere, ma vedendolo da dietro uno specchio fallire in tutti i test, test dopo test. Chiesi allora a Michell se sospettasse si trattasse di autismo già alla prima valutazione.
Lo avevo sospettato parlando con il mio pediatra. Kevin si sviluppava molto bene all’inizio e poi cominciò a regredire. Si ammalava continuamente e perse tutto ciò che aveva raggiunto. Mi sembrava avesse qualcosa come l’autismo, anche se allora non sapevo niente della connessione neuro immunitaria. Così cominciai ad aspettare di avere una diagnosi, ma non mi aspettavo fosse così brutta.
Fecero un test per il QI che risultò intorno a 60 o 70. Parliamo di un bambino che aveva cominciato a parlare già a pochi mesi, un bambino che aveva raggiunto le tappe miliari dello sviluppo nella norma e poi… tutto perso.
Cominciai a notare dei cambiamenti quando Kevin aveva circa sei mesi ed eravamo vicini a Natale 2002. Fu allora che fece il vaccino DTaP (difterite, tetano e pertosse) con il vaccino Hib e subito dopo cominciò a regredire. Cominciò ad ammalarsi e a perdere tutte le tappe miliari raggiunte. Aveva eczemi su tutto il corpo e cominciò a sanguinare internamente. Era anemico e il pediatra disse che forse era troppo latte. E io dissi, “Non credo di dargli troppo latte, ma seguirò il suo consiglio e gli darò supplementi di ferro e diminuirò il latte”. Ma tutto questo non aveva niente a che fare con il latte: sanguinava troppo e stava perdendo ferro.
Sanguinava nel colon e nell’intestino tenue e stava sempre peggio. Sempre peggio. Così gli fecero una colonscopia e una endoscopia con biopsie varie e trovarono che aveva una iperplasia nodulare linfoide nel colon. Il nostro sistema linfatico è collegato al nostro sistema immunitario e i linfonodi del colon erano infiammati. Iperplasia significa che i noduli sono più grandi di quanto dovrebbero e che si infiammano quando c’è una reazione immunitaria. Quelli di Kevin erano infiammati al punto che ogni volta che mangiava sanguinavano. Per cui mangiare gli faceva male. Aveva anche una gastrite, una infiammazione cioè dello stomaco. Con tutta questa infiammazione, si sanguina abbondantemente, e infatti questo accadeva. Mio figlio aveva dolori gastrointestinali cronici. Vederlo soffrire mi uccideva, e la soluzione che mi davano era di non fare niente. Era così frustrante.
Lo sapete, tutti abbiamo speranze e sogni per i nostri figli. Tutti le abbiamo. Anche se non lo si ammette, tutti abbiamo almeno l’aspettativa che i nostri figli siano sani e che siano felici. E quando avete un bambino malato a cui poi viene diagnosticato l’autismo, è devastante. Vi sentite assolutamente inermi. E’ come entrare in un mondo di cose sconosciute: non sapete come affrontare tutto questo, non sapete come aiutarlo e non sapete come fare a farlo star meglio. Non sapevo come riprendermelo e farlo essere sano, felice, normale. E, come voi che avete dovuto affrontare lo stesso percorso certamente saprete, è molto difficile per una madre sapere che non c’è niente da fare e accettarlo.
Quando lo valutarono, mi dissero che non c’era troppo che potessi fare se non intervento comportamentale, terapia occupazionale, logopedia e cose del genere. Il giorno in cui avemmo la diagnosi, non avevo idea che l’autismo di Kevin aveva basi mediche. Nessuno aveva menzionato niente delle deficienze immunitarie o delle reazioni immunitarie o delle tossine ambientali o di altro. Questo fu un mondo che mi si aprì successivamente. Ma quando ricevemmo la diagnosi, la sola cosa che ci dissero che potevamo fare fu di cominciare ad insegnargli come comportarsi, premiando i comportamenti buoni in modo che capisse come convivere con l’ansia che gli derivava dalle varie situazioni. Kevin era così malato fisicamente allora, ma nessuno mi disse che le cose erano collegate!
Parlai al mio gastroenterologo di zona della iperplasia nodulare linfoide di Kevin e lui disse che potevo somministrargli steroidi, ma in un bambino così piccolo non era assolutamente normale. Rimasi, guardando al mio bambino e sapendo che toccava a me aiutarlo. Dovevo fare per conto mio. Così andai a casa, andai su Internet e feci un google con “iperplasia nodulare linfoide e autismo”.
La mia vita sarebbe stata totalmente diversa se avessi scritto in modo diverso. Ma qualcosa dentro di me, il mio istinto, mi fece scrivere “iperplasia nodulare linfoide E autismo”. Non avevo idea ci fosse una connessione. Nella mia ricerca su Google apparve il Dr. Arthur Krigsman. E davanti a me ci fu la connessione che non conoscevo e che avrebbe salvato la vita di Kevin. Dopo aver trovato il Dr. Krigsman tutto cominciò a migliorare.
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La fiducia nella voce di Michelle mi tolse il respiro. Non c’era niente nel suo tono che suggerisse che era una vittima. Ogni parola che diceva, mi spingeva a voler sapere ancora di più di lei. Notai che non aveva parlato troppo del marito, per cui le chiesi cosa era successo a quel punto nel suo matrimonio.
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Quello che disse mio marito pressappoco fu, “Fai quello che vuoi; io continuerò a lavorare e a pensare alla mia carriera”. La cosa che per me fu più frustrante e che mi fece più male era che anche io avevo una carriera. Il nostro bambino stava male e dovevamo fare qualcosa.
Prima della diagnosi ero da tempo Professore Universatario. Ebbi il mio primo incarico di insegnamento a 24 anni. Ero una delle più giovani professoresse dell’Università dove lavoravo e forse una delle più giovani in assoluto nel campo dell’antropologia. La mia specializzazione era in Storia e Antropologia culturale. Diverse mie dissertazioni avevano vinto dei premi e avevo pubblicato molti articoli. Avevo anche scritto un libro e lo avevo sottoposto a revisione. Quando Kevin si ammalò, questo era il mio lavoro e la sua malattia ne segnò la fine: quando si ha un bambino malato, non c’è niente altro.
Mio figlio aveva bisogno di aiuto e sentivo che se avevo la capacità di farlo stare meglio era mia responsabilità impegnarmi per farlo. Per cui riorganizzai la mia fiorente carriera in modo da poter insegnare a classi online e avere così la possibilità di stare a casa a curare mio figlio.
Sapevo di dover mantenere intatti alcuni aspetti della mia personalità , per cui continuai a lavorare anche per questo. Non volevo perdermi completamente, cosa davvero facile quando si ha un bambino nello spettro dell’autismo. Non volevo avere niente di cui rimproverarmi o di cui pentirmi . Fu così che trovai il Dr. Krigsman e misi Kevin a dieta senza glutine e caseina. Questa però non funzionava per Kevin. Non rimaneva molto al bambino da mangiare perché era allergico praticamente a tutto, e non sto esagerando. L’unica cosa cui non era allergico era il glutine. Non sapevamo come fare a nutrirlo dal momento che non mangiava assolutamente niente e io mi rifiutavi di farlo intubare per alimentarlo in qualche modo. Non ingoiava, non succhiava, non mangiava. Cominciammo allora la terapia occupazionale per cercare di insegnargli a mangiare e gli demmo la sulfasalazina per provare a calmare l’infiammazione intestinale.
Il Dr. Krigsman mi consigliò di andare ad una conferenza DAN! e di capire di cosa parlavano. Suppongo che, conoscendomi, lui abbia capito che ero il tipo di persona che avrebbe combattuto fino alla fine per mio figlio.
Così andai alla conferenza DAN! e da allora tutto fu diverso. Tutti quei genitori dicevano le stesse cose, avevano le stesse esperienze che avevo avuto con Kevin e i loro bambini stavano meglio. E i dottori che erano lì non erano stregoni, non erano gente che cercava di sfruttare in qualche modo i genitori, ma medici che stavano facendo vera ricerca in vere Università . E io, venendo da una Università , avevo una prospettiva particolare: sapevo quanto fosse difficile farsi pubblicare gli studi su riviste scientifiche e se le loro ricerche lo erano state, allora si trattava di vere ricerche. Non si poteva discutere il fatto che la ricerca che stavano conducendo puntava ad una connessione tra il sistema immunitario e l’autismo. Una volta che verificai questo e capii che non cercavano di sfruttare i genitori, che non vendevano olio di serpente e che volevano solo aiutare i bambini, mi trovai davvero ad una svolta importante per me e mio figlio.
Sapevo di aver bisogno di imparare tutto quello che potevo per provare a mettere insieme i vari pezzi e individuare cosa non stava andando bene in Kevin che intanto cominciava a stare meglio con la sulfasalazina, anche se erano piccoli passi: migliorava ogni giorno più velocemente di quanto aveva finora fatto con il solo intervento comportamentale. Penso che le terapie biomediche non solo lo abbiano aiutato a sentirsi meglio, ma anche a realizzare quelle connessioni neurologiche. Quando sentii il Dr. James Neubrander parlare alla conferenza DAN!, decisi che tornata a casa lo avrei chiamato. Non era ancora tornato dalla conferenza quando telefonai al suo studio e dissi, “Ho bisogno di un appuntamento con il Dr. Neubrander perchè vorrei la methyl B12 per mio figlio”.
Allora non sapevo. era stata solo una intuizione perché nella mia famiglia c’è una storia di anemia perniciosa. una incapacità di processare la B12 dai cibi. Ho cinque cugini che fanno regolarmente iniezioni di B12 e questo fu il motivo per cui pensai ci potesse essere un legame.
Chiamai lo studio e acquistai le iniezioni di methyl B12. Feci a Kevin la prima iniezione e, vi prego di credermi, il giorno dopo era un altro bambino. La maestra mi chiamò e mi disse, “Che avete fatto a questo bambino? Perché non è lo stesso bambino di ieri”.
Dissi, “Che cosa avete notato? Che ha fatto in classe”.
E lei rispose, “Non ha spinto nessuno, non ha pianto, è stato seduto, ha lavorato, era contento, rideva e ha scherzato. Cosa avete fatto?”.
Ed è stato così che ho saputo che aveva una carenza di methyl B12… perché non avevo mai dato supplementi di B12 prima di allora”.
Allora il suo programma prevedeva una iniezione ogni tre giorni e l’insegnante riusciva ad individuare il giorno in cui gli facevo l’iniezione da come si comportava bene in classe. Il secondo e terzo giorno però peggiorava, ritornando a sentirsi piuttosto male, per cui chiamai il Dr. Neubrander e gli dissi, “Ascolti, lei deve fare qualcosa per me perché questo bambino sta rispondendo bene alla methyl B12, ma solo il primo giorno. I miglioramenti svaniscono subito”. Fu così che il Dr. Neubrander decise di fare una iniezione al giorno e da allora Kevin cominciò a migliorare.
Con le iniezioni di methyl B12, vedemmo grandi miglioramenti nella sfera sociale, non necessariamente miglioramenti cognitivi (quelli non arrivarono fino alla camera iperbarica), ma una maggiore abilità sociale. Divenne un bambino allegro e sereno e cominciò ad interessarsi agli altri bambini e a voler fare amicizia.
Allora il Dr. Neubrander mi consigliò l’ossigeno iperbarico (una terapia che usa ossigeno ad alta pressione, generalmente in una camera). Non cominciai subito perché avevo delle titubanze: volevo sapere di una terapia perché funzionava, sia dal punto di vista medico che fisico. Si crede erroneamente che le mamme autismo vogliono provare qualunque cosa : io volevo provare solo ciò che aveva delle basi reali. Per cui feci delle ricerche e trovai che l’ossigeno iperbarico era stato usato per anni, per guarire piaghe, per calmare l’infiammazione e per le malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide e il lupus. Io ho il lupus, per cui pensai ci fosse un legame e questo fosse un altro pezzo del puzzle.
Facemmo in totale 15 ore, ma dopo 48 ore Kevin era un altro bambino. fu allora che fece il grande balzo: l’insegnante disse che improvvisamente riusciva bene in matematica e parlava molto meglio. Era anche più interessato e attento, aveva maggiore contatto oculare e prendeva l’iniziativa. Diceva cosa voleva e i suoi pensieri erano più connessi e veloci, cose che non avevamo mai visto prima.
essere una mamma autismo comporta un tremendo senso di colpa e di responsabilità in quanto siete la sola che deve prendere le decisioni. Il mio ex – marito non voleva avere niente a che fare con questo. Aveva praticamente detto, “Qualunque cosa decidi, falla”. E così sta a noi mamme guarire i nostri bambini da questo “male incurabile”. Una pressione enorme, ogni mattino: dovevo svegliarmi e occuparmi di Kevin, assicurandomi che non regredisse dal giorno prima. Se stava bene, potevo andare avanti, ma i giorni più brutti erano se lo vedevo con una influenza o cose simili, perché ogni volta che si ammalava poteva regredire.
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Dissi a Michell che capivo benissimo la sua esperienza: ogni volta che Evan si ammalava, anche oggi, era come se l’autismo tornasse. La regressione è una delle paure più comuni, sebbene non la sola, che i genitori con bambini con autismo provano. Non vorremmo mai vederli star male. Ci svegliamo ogni giorno e controlliamo l’elenco delle cose da fare per assicurarci di non dimenticare niente. Quando si ammalano, generalmente regrediscono.
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Per qualche ragione, le mamme la prendono personalmente quando il figlio regredisce. L’ho fatto anche io. Mi disperavo perché mi ero impegnata tanto e ora lui regrediva. Perché? No, non dovevo lasciare che avvenisse. E mi arrabbiavo e mi innervosivo per il terrore che la regressione non passasse. Che avrei fatto? Ma, fortunatamente, ogni volta si riprendeva e riprendevamo il nostro cammino.
Cominciammo anche la somministrazione di 6-MP, che è la mercaptopurina; aiuta con l’infiammazione intestinale. Questa fece finalmente in modo che i suoi livelli di sangue fossero sotto controllo perché i suoi globuli bianchi erano sempre altissimi. Il suo otorino gli fece fare test per gli eosinofili (i globuli bianchi del sangue) e disse che erano i livelli più alti che aveva visto in tutti gli anni di pratica medica. La sua risposta immunitaria era esagerata.
Kevin ha cinque anni ora e frequenta un asilo pubblico normale, senza alcun servizio né sostegno. Per cui avevamo un bambino non verbale, con un QI di 70 e chiaramente autistico, mentre oggi nessuno potrebbe immaginare che l’autismo abbia fatto parte della sua storia. La sua insegnante dell’asilo dice che accademicamente è sopra la media; mi ha detto “ Ci sono alcuni problemi di linguaggio”.
Ho risposto, “Okey, bene, stiamo lavorando su questo”. Ho riso perché abbiamo iscritto Kevin in quell’asilo senza diagnosi e lei non sapeva, come nessun altro lì, che Kevin aveva avuto l’autismo. Il mio ex marito non vuole che dico a nessuno che era autistico perché, purtroppo, il mio ex si vergognava dell’autismo di suo figlio. Una volta che io avevo guarito l’autismo, è stato facile per lui far passare Kevin per normale. Solo qualche piccolo problema nel linguaggio è quello che vedono a scuola. Io non mi sono mai vergognata dell’autismo di Kevin, anzi per me è stato sempre l’opposto. C’è qualcosa che si può fare per aiutare vostro figlio, guardate, ma siccome con il mio ex marito condividiamo la custodia legale, non posso mostrare il suo volto. Comunque sono in un periodo bellissimo: il mio divorzio si è finalmente concluso e mio figlio sta meglio. Due cose di cui essere infinitamente grati.
Ora lui sta andando sempre meglio, mi sento come se mi stessi presentando a mio figlio di nuovo:è stato così male per tutta la sua vita che non abbiamo avuto il tempo di conoscerci. Dopo la vaccinazione, a sei mesi, se ne è andato e ora mi sto ripresentando a questo bambino che finora non è stato qui, ma è stato nascosto da tutti quei problemi immunitari e dall’autismo.
E’ molto difficile spiegare a qualcuno che non ha un bambino come i nostri quanta speranza abbiamo veramente. Abbiamo speranza per tutti e dobbiamo credere in noi stessi per essere capaci di affrontare il da farsi. Bisogna affrontare i medici che vi dicono che siete pazze perché non credete nel programma vaccinale e che pensate che tutto quello che dicono sono bugie. Dovete essere molto forti per non credere loro quando vi dicono che non c’è niente che potete fare per i vostri figli. Dovete essere capaci di sperare e credere in voi stessi per combattere e tornare a casa alla fine della giornata e dire ”So di aver ragione”. Dovete essere forti per guardarli e dire”Conosco mio figlio meglio di chiunque altro e so che sarò capace di curarlo”. Dovete saper opporvi alle critiche. Tutti coloro che hanno fatto qualcosa di grande hanno dovuto farlo. Credo che tutti noi sappiamo che dovremo essere capaci di superare molte brutte cose e ignorare il fango con cui tenteranno di coprirci.
Non c’è niente di più terribile di quando i dottori vi dicono che non potete riparare il cervello perché non sanno come fare. E’ come sentir dire, “Mi dispiace, qualcosa si è rotto nel suo cervello. Buona giornata”. Ma se c’è qualcosa nel loro sistema immunitario, o nell’intestino, o nel sangue potete correggerlo. Come mamma vi dà speranza sapere che non si tratta di qualcosa insito in vostro figlio che non va. E’ qualcosa che si può correggere. Mi diede una infinita speranza sapere se avrei corretto i suoi problemi intestinali e il suo sistema immunitario, forse sarebbe stato meglio. E così è stato.
Una diagnosi di autismo non è più una condanna a morte come una volta: è come tutte le altre malattie, occorre un pò di tempo perché la medicina trovi le soluzioni, occorre un pò di tempo perché la comunità ascolti la scienza. E la scienza dice che è una malattia autoimmune che si manifesta comportalmente come autismo. Se lo curate come una malattia autoimmunitaria o neuro immunitaria, allora i bambini miglioreranno. Potrebbero non guarire completamente, ma staranno meglio e questo è ovviamente meglio di non fare niente, per amor di Dio.
Dovete decidere e provare!
Un salto all'ultima storia del libro di Jenny...
Gina Tembenis: madre guerriera per Elias
Stan Kurtz mi chiamò piangendo un giorno per dirmi di una famiglia che conosceva che aveva vissuto un’esperienza terribile. Quando mi raccontò la loro storia non potevo crederci. In quel momento ero con Jim e dovetti allontanarmi e farmi raccontare di nuovo da Stan l’intera storia perché non volevo che Jim mi vedesse piangere ancora. Andai quindi in bagno, chiusi la porta e mi rincantucciai in un angolo attaccando il telefono all’orecchio. Alla fine dissi a Stan che non riuscivo a sopportare quel racconto, ma dentro di me sapevo che avrei dovuto intervistare quella famiglia. Questo è il motivo per cui Gina è l’ultima guerriera di questo libro. State per capire il perché.
Mio marito Harry ed io portammo nostro figlio elia alla visita di controllo dei 4 mesi. Era il 26 Dicembre, il giorno dopo Natale. Mio marito lo teneva in braccio quando gli fecero le punture. Mentre l’infermiera lo pungeva mio figlio si irrigidì e pianse. Mio marito chiese “Cosa gli avete dato?” e loro fecero l’elenco, quattro punture per nove diverse malattie. Mio marito disse, scherzando senza entusiasmo, “Lo sapete che potrebbero uccidere un elefante, immaginiamo un bambino”.
Ragazzi, ci aveva azzeccato, perché quando lo riportammo a casa, cominciò il nostro inferno.
Ci dissero “potrebbe avere una febbre…gonfiarsi un po’”…il solito blablabla….per cui il fatto che fosse un pò nervoso quando lo mettemmo a letto ci sembrò normale. Ad un certop punto si svegliò, mi alzai, andai nella sua stanza, ma stava bene. Harry doveva andare al lavoro il mattino dopo per cui mi chiese se poteva spegnere il monitor. Gli dissi “No, no, no, non spegnerlo. Mettilo basso in modo che possiamo almeno sentirlo”. Finalmente Elias si addormentò, ma, ad un tratto, sentii fargli quello strano rumore, per cui mi alzai e andai nella sua stanza a controllare. Quando entrai vidi mio figlio nella culla, in preda alle convulsioni : stava avendo una crisi epilettica.
Urlai a mio marito di correre, lui saltò fuori dal letto, avvolgemmo Elias in un asciugamano e uscimmo di casa. C’era stata una tempesta di neve, ma vivevamo molto vicino all’ospedale per cui non pensammo nemmeno di chiamare un’ambulanza. Semplicemente lo prendemmo e saltammo in macchina. Ma quando entrammo in macchina, era congelata. Per tutto questo tempo Elias continuava ad avere le convulsioni tra le mie braccia . ero in preda al panico ed entrambi uscimmo dalla macchina e provammo disperatamente a mettere in moto l’altra.
Ci riuscimmo, ma ora cominciava ad uscire una schiuma bianca dalla bocca di nostro figlio. Mi ripetevo “resta con me amore, resta con me piccolo mio”.
Quando giungemmo in ospedale, c’era un poliziotto fuori. Aprimmo lo sportello della macchina e cominciammo a gridare “nostro figlio ha le convulsioni!”. Il poliziotto lo prese e corse dentro.
Io urlai “Credo stia avendo una reazione ai vaccini che ha fatto oggi”.
Le convulsioni duravano ormai da quaranta minuti.
Mio marito ed io sembravamo impazziti, imploravamo “Oh mio Dio, non puoi farlo smettere?”. C’era un muro di persone intorno a lui ed io ed Harry eravamo atterriti. Cominciarono a dire “Il cuore sta andando bene ora, ok, si riprende. Il cuore sta tenendo” e noi continuavamo ad implorare “Fa che le crisi smettano!”.
Finalmente riuscirono a bloccarle, ma Elias aveva avuto una paralisi parziale. Metà della sua faccia sembrava avesse avuto una paresi: un occhio, la bocca e tutta la struttura dei muscoli facciali erano come scesi. L’altra metà del viso stava bene. A quel punto, odio dirlo, ma pensai fosse morto perché vedevo che tutti si allontanavano, andavano via…ed io pensavo “Questo non è un buon segno”, specialmente quando vidi la sua faccia in quelle condizioni. Poi un’infermiera lo ispezionò e gli mosse il pollice e fu quasi come se gli infondesse la vita perché improvvisamente il viso di Elia si corresse dalla paralisi.
Non ero mai stata così spaventata in vita mia.
Andammo in UnitĂ Intensiva per qualche giorno e quando finalmente uscimmo quello che avevamo detto al poliziotto, allo staff del Pronto Soccorso sul danno da vaccino non era stato pubblicato su nessun giornale. Non fu annotato da nessuna parte che era stata una reazione ai vaccini.
Quando tornammo dal nostro pediatra e gli dicemmo che credevamo si fosse trattata di una conseguenza ai vaccini che Elias aveva fatto, ci disse che non c’era nessuna correlazione tra le crisi epilettiche ed i suoi vaccini. Lo ripetette tante volte e ci disse di non preoccuparci, facendo davvero un buon lavoro nel convincerci a crederlo.
Poi avvenne di nuovo. Facemmo i vaccini ed Elias immediatamente ebbe le convulsioni. Nel primo anno di vita le ebbe 45 volte. Fu in quel periodo che mio marito cominciò le sue ricerche con Google.
Non eravamo ancora alla diagnosi di autismo ma Harry aveva sentito di cose come carenza di vitamina B e dieta e volevamo parlarne al pediatra perché tutto quello che stavamo ottenendo erano sempre più crisi e loro non facevano altro che aggiungere altri farmaci antiepilettici o aumentare le dosi rispetto a quelle che Elia già prendeva.
Allora Elias aveva raggiunto alcuni traguardi: riusciva a stare seduto e camminava in maniera consona all’età . Ma al tempo stesso non indicava, non gesticolava ed era non verbale.
Ci guardava come fossimo fantasmi, non rispondeva quando lo chiamavamo col suo nome, per cui cominciavamo a chiederci se potesse trattarsi di autismo. Con le ricerche che avevamo cominciato su Google capivamo che i segnali indicatori conducevano in quella direzione.
Cominciammo a parlarne tra noi, a sperare che non si trattasse della parola “A”. Lo chiamavamo così: la parola “A”. Eravamo molto spaventati perché ogni cosa che leggevamo sembrava invece proprio confermarlo, per cui chiamammo l’ospedale pediatrico di Boston perché era uno dei migliori. Ci prenotarono una visita con un neurologo e andammo. Visitò Elias, ed io lo vidi fallire in tutti i test continuando a fare quello che fanno tutte le mamme e cioè difendere il loro figlio: “Sta avendo una brutta giornata oggi. Forse è per questo…perché li conosce, conosce il quadrato, il rettangolo….conosce tutti i colori…sa che la mucca fa muuu”.
Il neurologo cercava di addolcirci la pillola, fino a quando mio marito non disse di essere chiaro.
“PDD- NO”, disse
Rimanemmo per un attimo confusi poi Harry chiese “Il PDD è l’autismo?” e il medico disse “Si, è autismo. Questo è un opuscolo con le informazioni che dovreste leggere”.
Ritornammo alla macchina, presi l’opuscolo e dissi “Non voglio guardarlo. Sono sciocchezze. Non è così”. Negavo tutto completamente.
Un mese dopo Elias ebbe cinque crisi, una delle quali richiese che chiamassimo l’ambulanza perché aveva una crisi dopo l’altra. Per questo decidemmo per il momento di concentrarci sul tentare di fermare le crisi invece che affrontare la parola “A”.
Elias finì per arrivare a prendere un sacco di farmaci antiepilettici: ne prendeva quattro alla volta e a mala pena riusciva a camminare. Smise di avere le crisi, ma era come un treno deragliato. Arrivò al punto di non potersi muovere.
Mi sentivo totalmente abbandonata, ero stressantissima, la situazione era davvero insopportabile. Se si ammalava, entravo nel panico, perché se gli veniva la febbre poteva avere una crisi: la febbre può indurre le crisi.
Elias intanto era passato da una diagnosi di PDD-NOS a quella di autismo.
Cominciammo a renderci conto che tutto quello che stavamo facendo non stava funzionando. Non c’era altro che potevamo fare se non vedere soffrire nostro figlio.
Decidemmo che dovevamo fare delle scelte.
Era Gennaio del 2004 quando trovammo il nostro medico DAN!. Ci disse di cominciare la dieta, la dieta senza glutine e caseina. Facemmo poi tutti i test che avremmo voluto fare tempo prima, ma cui il nostro pediatra aveva detto di no: il test per i metalli pesanti, il test per le allergie alimentari, per la candida, test nutrizionali, tutto insomma.
I risultati dissero che Elias aveva candida, zinco estremamente basso ed era carente di vitamina B e minerali come magnesio, manganese e cromo. Quindi iniziammo il Super Nu-Thera e il cod liver oil, un antifungale contro la candida, iniezioni di MB12 e glutathione.
I primi miglioramenti che vedemmo riguardavano il sonno. Vivevamo un inferno da quasi 4 anni con Elias che si svegliava ogni notte. Migliorò poi anche la focalizzazione, ma la cosa più importante fu che il numero delle crisi epilettiche diminuì: passò da 45 crisi in un anno a forse una o due ora.
Cominciammo poi un antivirale, il Valtrex, e cominciò a venir fuori il linguaggio. Eravamo sollevati. Anche il suo insegnante a scuola ci chiese cosa stavamo facendo, perché era completamente diverso. Aveva ancora dei problemi di elaborazione, ma i miglioramenti con il linguaggio erano sorprendenti. Era anche diventato un vero attore, con uno spiccato senso dell’humor. Le cose sembravano andare meglio.
Cinque mesi dopo, si verificò il peggior incubo di una madre.
Elias si svegliò un Giovedì mattina e aveva mal di gola e abbassamento di voce, ma non aveva febbre. Più tardi, però, gli venne e naturalmente io, in preda al panico, gli diedi il Motrin, un antifebbrile. Il suo respiro cominciò ad essere strano, per cui telefonai ad Harry al lavoro e gli dissi di venire a casa perché volevo portare Elias in ospedale giusto per assicurarmi che non avesse preso una infezione o qualcosa.
Portai Elias in ospedale e lo visitarono. Eravamo in sala d’attesa ed Elias era iperattivo, batteva sui tavoli, correva intorno, guardava i cartoni, giocava con le cose. Dissero che volevano fargli un tampone alla gola per cui Harry dovette prenderlo e tenerlo fermo. Appena terminato, l’infermiera era appena uscita, ed Elias ebbe una crisi tra le braccia del padre.
Io corsi fuori per dire che stava avendo una crisi. Elias ebbe le convulsioni per 30 secondi, poi smise. Poi ebbe un’altra crisi per 30 secondi e poi smise. Poi entro in crisi piena. Lo misero sul tavolo, accorsero tutti nella stanza cercando in tutti i modi di calmare la crisi. Erano ormai passati 15 minuti, lo avevano riempito di farmaci mentre io guardavo tremando atterrita. Poi qualcuno chiamò uno psicologo perstarci vicino e io entrai in panico completo.
Erano arrivati anche i rianimatori col respiratore, per aiutarlo a respirare. Respirava da solo, ma aveva un sacco di schiuma che praticamente lo soffocava e loro continuavano a dargli tutti quei farmaci.
Mi piegai su di Elias e gli parlai, cercando di sostenerlo “Okey, amore, basta. La mamma è qui, basta” e loro continuavano a dargli cose su cose, ma non funzionavano.
Guardai l’orologio e pensai “Ecco, sono passati 45 minuti” e gridai “Fate qualcosa! Avanti! Cosa volete dargli ora?”.
Loro dicevano “ Okay, stiamo somministrando questo, stiamo somministrando quello” . Poi gli somministrarono fenilbarbiturico. Se non avesse funzionato nemmeno questo, lo avrebbero mandato in coma. Quando gli diedero il fenilbarbiturico il livello dei battiti cardia ci continuò a essere molto, molto, molto alto. Molto alto.
Quindi gli diedero una seconda dose diu fenilbarbiturico per indurre il coma e cominciammo a vedere le crisi calmarsi. Immediatamente anche il battito del cuore cominciò a diminuire. L’infermiera pretese che io ed harry uscissimo dalla stanza. Appena uscimmo, vedemmo entrare la barella.
Ero intontita. Potevo sentire quello che dicevano sulla pressione e su tutto perché eravamo proprio fuori la porta. Fu in quel momento che ebbi la sensazione che non ce l’avrebbe fatta.
Poi li sentimmo urlare “E’ andato in arresto cardiaco”. Tutti cominciarono a lavorare freneticamente per resuscitarlo, non potevo credere che stesse succedendo davvero. Lo ripresero, ma lo persero di nuovo, e poi lo ripresero e lo ripersero.
Harry ed io eravamo in piedi, dietro quella porta, completamente sotto shock per quello che stava accadendoci. La gente ci passava davanti e ci guardava come stesse guardandoi un incidente avvenuto per strada. Questo era molto fastidioso….avevo un taler indicibile dolore..
Chiusi gli occhi e pensai “E’ andato ora”. L’ho portato qui per uno stupido mal di gola e…sta avendo un arresto cardiaco. Quando guardai nella stanza, vidi un nugolo di persone e potevo leggere le loro espressioni…e il linguaggio del corpo. Guardai mio marito, entrambi in piedi, intontiti.
Poi riuscirono a farlo rianimare. Lo stabilizzarono. Ma nel momento in cui stavano per portarlo in Unità Intensiva dissero che non era più stabile. Vennero verso di noi e ci dissero “Volete chiamare qualcuno? Pensiamo dovreste chiamare qualcuno della vostra famiglia”. La cosa peggiore che una madre possa sentire. Mi avvicinai al letto e guardai il mio bambino. Aveva il respiratore e tubi ovunque. Tutto quello che potevo pensare era “Questo non può succedere. Non può succedere”.
Arrivarono i risultati dell’EEG e ci dissero che Elias era cerebralmente morto. Ci dissero che la loro speranza era che fosse il fenilbarbiturico, che mette il corpo in coma temporaneo, a causare tutto questo. Per cui dovevamo solo aspettare e vedere.
E così aspettammo e aspettammo e aspettammo senza muoverci. Non riuscivano ad alzare in alcun modo la pressione sanguigna e per questo gli davano tutti quei farmaci, ed ogni volta che scendeva dovevano alzargli un pochino la dose. Poi non riuscivano ad alzare la temperatura corporea e dovevano riscaldarlo.
Non apriva gli occhi, non si muoveva, non faceva pipì. Non faceva urine in alcun modo e questo significava che i reni erano andati. Per cui riunirono la famiglia e ci dissero “Dobbiamo aspettare 24 ore e vedere che succede”.
Poi giunsero le parole più terribili che una madre possa sentire…l’infermiera disse…”Dovete considerare che potrebbe non riprendersi dal coma”. Il mondo si fermò. Non sapevo cosa fare di me stessa. Non potevo sopportare questo dolore.
Ci dissero che tra 24 ore gli avrebbero fatto un secondo EEG e avrebbero vistop a che punto era, ma se non fosse cambiato niente avrebbero considerato Elias cerebralmente morto.
Mio marito volle gli portassero una TV così che avrebbe potuto vedere i suoi video preferiti, la sua musica preferita, qualche libro, giusto per provare a stimolarlo un po’.
La mattina dopo venne uno dei medici della neurologia e si mise a parlare con lui “Ciao, ragazzo”. Ma lui non si mosse. Poi un’ora dopo venne l’infermiera, lo visitò, mi guardò e disse “Vorrei avessimo potuto fare di più”.
E fu allora che, se avessimo avuto ancora speranza, la perdemmo del tutto. Lei disse “Non si riprendono mai da questo”.
Guardai il mio bambino con un milione di fili e di tubi attaccati e li spostai per avvicinarmi. Lo tenni abbracciato per otto ore e stetti con lui finchè non morì. Sentii una energia entrarmi dentro e che mi fece battere il cuore. Era una energia arancione. Seppi che era Elias.
Fu dichiarato morto alle 12:26. Mio marito Harry mi fece osservare il significato di quei numeri: crediamo che tutto questo sia accaduto a causa dei vaccini che gli fecero al controllo dei 4 mesi. Era il giorno dopo Natale…12/26. Elias morì alle 12:26. Il giorno di quelle vaccinazioni, mio marito aveva scherzato con il dottore sul fatto che Elias aveva avuto vaccini che avrebbero potuto uccidere un elefante.
Uccisero invece un bambino meraviglioso di nome Elias.
SarĂ sempre nei nostri cuori.
Angelo custode
Terminai l'intervista con Gina, sforzandomi di trattenere le lacrime, provando disperatamente ad arrivare in macchina. Sentivo nel petto quello che solo una madre che ci è passata può sentire. Mi accasciai sul sedile, chiusi lo sportello e cominciai a piangere il mio dolore, sperando venisse tutto fuori. Mi sentivo il cuore come un vulcano che stesse per eruttare senza potermici opporre. Potevo solo lasciar uscire tutto quel male. Piansi talmente tanto forte, risentendomi la sua storia nella testa, più e più volte. La sofferenza di Gina per la perdita del figlio mi aveva distrutta. Piangevo anche per il ricordo di quanto era successo ad Evan un paio di mesi prima, portandolo quasi alla morte.
Evan era ritornato da scuola con un mal di pancia, a cui poi era seguito il vomito. Sapevo che sarebbe stata una notte lunga e difficile per cui lo tenni a letto con me, pulendo il vomito e facendo avanti e indietro dal letto al bagno. Non lo avevo mai visto vomitare così per una influenza intestinale. Ogni volta che provavo a dargli un sorso d'acqua, vomitava ancora di più.
Quando finalmente sorse il sole, Evan stava malissimo. Cominciò a chiedermi insistentemente un sorso di qualcosa, qualunque cosa, ma io avevo paura che riprendesse a vomitare. Poi, intorno alle 9 mi chiese di andare nella sua stanza e si alzò. Non voleva rimanere con me, e questo era insolito. Lo portai nella sua stanza e rimasi lì con lui. Ad un tratto cominciò a balbettare e ad avere un'espressione allucinata; urlai immediatamente a mio padre, che era a casa con me, "Papà , chiama il 118". Tirai fuori i vestiti di Evan, lo presi in braccio e lo portai all'ingresso. Continuava ad essere come allucinato e a balbettare ed io provai ad urlargli in faccia per riportarlo alla realtà . Non sapevo cosa stesse accadendo. Non lo avevo mai visto così prima. Aveva le pupille dilatate.
Alla fine disse "Mamma" e capii che si era ripreso, ma intanto arrivarono gli infermieri, che conoscevamo, e io gli dissi che dovevamo portarlo in ospedale perchè temevo potesse avere una crisi epilettica. Salimmo sull'ambulanza e andammo all'ospedale più vicino. Evan parlava con gli infermieri che erano stupiti da quanto fosse migliorato nello sviluppo. Naturalmente, gli sia piaciuto o no, feci a queste persone una mia piccola conferenza di 10 minuti sulla necessità di ripulire il corpo dalle tossine. Arrivammo in Pronto Soccorso, mi fecero alcune domande e finalmente ci portarono in una stanza per essere visitati.
Passarono 45 minuti aspettando un dottore e poi accadde: Evan cominciò ad avere convulsioni tra le mie braccia. Corsi con lui che si dibatteva fino all'infermeria, urlando "Sta avendo una crisi, fate qualcosa!". L'infermiera mi aiutò a stenderlo sul tavolo, mentre arrivava un altro infermiere che gli attaccò al braccio una flebo. Ci mise un pò più del solito per via delle forti convulsioni e a guardarli quel tempo mi sembrò un'eternità . Ero in piedi lì, dicendo a me stessa, "Non di nuovo! Non di nuovo!". Pregavo Dio che non succedesse niente di brutto. Evan aveva avuto un arresto cardiaco una volta e dovetti dare loro questa informazione perchè lo sapessero e agissero velocemente.
Era passato più di un minuto da quando era stata inserita la flebo e ancora non era stato dato alcun farmaco per fermare le crisi. Cominciai a gridare all'infermiera "Dove diavolo è l'Ativan? Dategli il dannato Ativan e fatele fermare".
L'infermiere disse "Sta arrivando, sta arrivando".
Da dove, dal Timbuktu? Perchè cavolo ci mettevano così tanto? Uscii dalla stanza di Evan e trovai un carrello delle medicine con un'infermiera che cercava qualcosa come per caso. Le dissi "Sta cercando l'Ativan?".
"Si" disse con nonchalance e continuò a guardare, come se stesse cercando un libro in una libreria.
Le diedi una decina di secondi e poi le urlai "Trova immediatamente quel dannato Ativan! Trovalo! Sbrigati! Forza!".
Lo trovò finalmente e ci catapultammo nella stanza di Evan. Infilarono nella boccetta una siringa e la iniettarono nella flebo. Passarono trenta secondi, ma le crisi non smettevano. Passò un altro minuto e le crisi non smettevano. Quattro minuti e non smettevano ancora.
Gridai "Forza! Dategliene di piĂą! Per favore, fate qualcosa!". Mi dissero di stare calma e gliene iniettarono ancora. Passarono altri due minuti e le convulsioni continuavano. Praticamente duravano da dieci minuti. Erano tutti impotenti intorno a lui, guardando mio figlio in preda agli spasmi.
Erano ora 20 minuti e le crisi continuavano. Gli misero una supposta di Tylenol per abbassare la febbre e gli fecero impacchi ghiacciati su tutto il corpo. Erano ora 25 minuti di crisi e lui sbatteva ancora piĂą forte per gli impacchi di ghiaccio. Non potevo sopportarlo. Cominciai a gridare ad Evan " Forza amore! Forza Evan".
Gli iniettarono altro Ativan e guardai l'orologio: 30 minuti di crisi. Dopo altri due minuti, comincia a gridare perchè provassero un fottuto PIANO B in quanto niente sembrava funzionare. Il Primario chiamò la farmacia e ordinò una busta di fenobarbital. Nel frattempo, portarono una carrello per la rianimazione nella stanza. Ero terrorizzata, ma l'infermiera disse "Solo nel caso servisse; vogliamo essere pronti a tutto".
Stavo vivendo un incubo; pensavo di non poter sopportare fisicamente il dolore che stavo provando.
Venne somministrato via endovena il fenobarbital ed io guardavo scendere ogni goccia e pregavo che fosse quella che riuscisse a fermare la crisi. Erano passati 45 minuti e ancora non passava. Avevano il carrello per la rianimazione pronto, con i rianimatori che aspettavano in caso fosse avvenuto il peggio.
Poi, improvvisamente, il corpo di Evan smise di sbattere e lui cominciò a russare. Mi inginocchiai e ringraziai Dio perchè Evan non aveva avuto un arresto cardiaco. Mio padre era lì, guardai la sua faccia e lui era sconvolto esattamente come ero io. Evan e mio padre erano una cosa sola e sono sicura che il cuore di mio padre provava lo stesso dolore che provavo io.
Ritornai a guardare Evan e gli diedi un bacio sulla testa. Tirai un sospiro di sollievo pregando che il peggio fosse passato. Dieci minuti dopo le convulsioni ripresero. "No! Di nuovo...no!".
L'infermiera corse di nuovo nella stanza e disse "Non c'è altro che possiamo dargli. Dobbiamo sperare che il fenobarbital faccia effetto e faccia fermare le crisi".
Mi piegai fino all'orecchio di Evan e cominciai a parlare con lui. "Stai con me, amore, rimani con me, torna dalla Mamma".
Tre minuti dopo smise di avere le convulsioni. Il mio corpo era di pietra. Ti prego, Dio, non farlo accadere più. E invece, un minuto dopo, le convulsioni ripresero. Gli misero un'altra supposta di Tylenol e fecero altri impacchi di ghiaccio. Guardavo l'orologio. Due altri minuti di crisi, poi si fermarono nuovamente e cominciò a russare.
Questo vai e vieni di crisi continuò per tre ore. Il dottore entrò nella stanza e disse che bisognava trasportarlo in un ospedale che avesse una unità intensiva, ma non potevamo trasferirlo finchè non fosse stato stabile.
Passò un'altra ora e le crisi non si fermarono. Ero annientata dal dolore nel vederlo così. Avevo paura che quando tutto fosse passato, il suo cervello sarebbe stato quello di un vegetale. Pensavo che potesse morire lì, pensavo al modo più veloce in cui potevo uccidermi se gli fosse successo qualcosa.
Il dottore ritornò nella stanza e mi disse che stavano per dargli un'altra dose di fenobarbital per indurre un coma. Disse che era il passo successivo che andava fatto per fermare le crisi. Chiesi come funzionava e lui mi disse "Fa andare il cervello in uno stato di morte e interrompe praticamente praticamente tutte le sue attività ".
Il mio cuore si era quasi fermato, mentre lui intanto continuava "Generalmente dobbiamo aiutarli a respirare, perchè da soli non riescono. Gli metteremo un respiratore". Sentivo le ginocchia che mi tremavano, mi sentivo morire e svennì. Mi portarono in un'altra stanza e mi ricoverarono. La pressione era fuori limite. Dopo che mi diedero un Ativan, corsi di nuovo da Evan. Gli avevano cominciato a somministrare l'altro fenobarbital e sapevo che stava lentamente andando in coma.
Evan finalmente smise di avere le convulsioni dopo sei ore. Arrivò quindi la squadra dei paramedici per trasferirci in una unità pediatrica intensiva. Ero spaventata dal doverlo muovere, avevo paura iniziasse un'altra crisi. Mi assicurarono che c'erano pochissime probabilità che accadesse. Evan era in coma.
Nell'ambulanza, non staccavo gli occhi dai numeri dell'apporto di ossigeno sulla macchina . Non lo avevano ancora attaccato al respiratore, ma era sufficiente una maschera per l'ossigeno: finchè l’apporto di ossigeno era buono, non avrebbe avuto bisogno del respiratore. Pregavo che il mio piccolo ce la facesse.
Il neurologo ci accolse al nuovi ospedale e guardò negli occhi di Evan. “Si, è in un coma pesante”. Guardò tutti i farmaci che gli avevano somministrato in quelle sei ore e andò via. Quella notte raggomitolata vicino ad Evan, pregavo che le cose cominciassero ad andare meglio.
La mattina dopo, Evan non si muoveva ancora; non aveva il respiratore ed erano tutti sorpresi che riuscisse a respirare da solo. Guardarono le sue pupille e dissero “Non c’è ancora”. Io chiesi, per quanto ancora? Mi dissero che dipendeva da quanto velocemente il fegato fosse riuscito ad eliminare il fenobarbital dal sistema. Rimasi seduta vicino a lui tutto il giorno, cantandogli le sue canzoni e dicendogli quanto lo amavo.
Il terzo giorno, Evan era ancora in coma. Non si muoveva per niente. Notai che cominciava sembrare peggiorare. Era molto, molto pallido. L’infermiera entrava di tanto in tanto e gli ascultava i polmoni che sembravano molto deboli. Cominciò ad avere il respiro affannoso, per cui portarono una macchina per fargli i raggi. Chiesi cosa fosse e mi dissero che volevano escludere una polmonite. A questo punto ero emotivamente esausta, quasi svenni di nuovo. Ero scossa, sconvolta. I raggi X erano puliti. Ringraziai Dio. Grazie, mio Dio.
Più tardi quella notte l’infermiera entrò e disse “Mi sta sembrando un pochino blu”. Aveva ragione. Lo avevo guardato ogni secondo e non mi ero accorta quanto fosse diventato blu. Guardò l’apporto di ossigeno ed era molto, molto basso. Mi disse “Sta avendo problemi con i polmoni. Sarà necessario mettere il respiratore se non comincia a respirare meglio nella prossima ora”.
Uscì dalla stanza e scoppiai in lacrime. Ce l’avevamo fatta finora, non volevo mettesse il respiratore. Mi avvicinai al suo letto, mi misi proprio davanti alla faccia di Evan e cominciai a gridare con quanto fiato avevo in gola:
“EVAN, E’ ORA DI SVEGLIARSI. DEVI TORNARE QUI. DEVI RESPIRARE PICCOLO: DEVI RESPIRARE: SVEGLIATI AMORE. TORNA QUI. VOGLIO GIOCARE ORA, OK? RESPIRA PICCOLO. RESPIRA!”
Urlavo talmente forte che tutto l’ospedale poteva sentirmi.
Urlai più forte che potevo per un’ora intera, fissando il numero sulla macchina dell’ossigeno. L’infermiera ritonò e mi trovò in piedi vicino al letto, che gli urlavo in faccia di svegliarsi. Andò verso la macchina e prese il numero. Sorrise, mi guardò e disse “ce l’hai fatta. Qualunque cosa tu abbia fatto ha funzionato. Guarda”. Guardai e il numero dei respiri era raddoppiato. L’infermiera mi battè sulle spalle e disse “Ben fatto Mamma. Ce l’hai fatta veramente”. Scoppiai a piangere, mi sedetti in un angolo sul pavimento cercando un po’ di sollievo.
Il giorno dopo, Evan cominciò a lamentarsi. Saltai in piedi e cominciai di nuovo a gridare “Piccolo, mi senti? Sono la Mamma. Puoi aprire gli occhi?”. Le infermiere vennero nella stanza e cominciarono a colpirlo dappertutto per avere una risposta. Lui rispondeva. Si ritraeva. Era uscito dal coma. Ero così riconoscente che mi fosse stato ridato. Non sapevo cosa fosse successo al suo cervello ma speravo nel momento in cui avrebbe detto “Mamma”. Continuai a cantargli le sue canzoni e a stimolarlo, e arrivò anche mia sorella, che è l’anima gemella di Evan. Le dissi “Evan, è venuta Jojo!”.
Lui lentamente aprì un occhio, anche se poi lo rotolò indietro, e disse “No…Jojo”. Cominciai a urlare e a saltare ovunque. Corsi verso lo studio delle infermiere e dissi “Ha detto qualcosa. Ha detto qualcosa”.
La cosa emozionante era che “No Jojo” era uno scherzo che facevamo con Evan. Ogni volta che Jojo arrivava io dicevo “ E’ arrivata Jojo” ed Evan faceva finta che lui non la volesse e diceva “No Jojo. Voglio la Mamma” e poi si facevano il solletico. Il fatto che avesse detto “No Jojo” era cos’ importante perché faceva parte del nostro gioco. Significava che aveva capito.
Passarono delle ore e Evan cominciò ad aprire gli occhi sempre di più. Era ancora molto sedato, tanto che ogni paio di parole che diceva sembrava come un marinaio ubriaco o una persona cerebrolesa. Speravo no fosse la seconda.
Cinque giorni in ospedale ed Evan era sveglio, ma ancora intontito. Poteva a mala pena parlare, ma era più atteto. Purtroppo. Cominciò a vomitare di nuovo ed ebbe una diarrea esplosiva. Scoprimmo che aveva preso il rotavirus a scuola (Dio mio, sono così contenta che almeno il vaccino che gli venne fatto per il rotavirus abbia funzionato). Mi dispiaceva troppo che venuto fuori dal coma dovesse affrontare anche questo, vomito, niente cibo, e non riuscire a dire più di tre stentate parole.
Quando finalmente uscimmo dall’ospedale, andammo a casa spostai il materasso per terra. Non era ancora capace di camminare ed ero spaventata che potesse cadere dal letto. Dormii per terra con lui per settimane. Ci volle un mese perché ritornasse a parlare e a camminare. Ero spaventata che potesse avere dei danni cerebrali, ma un mese dopo aveva recuperato tutto.
Fu quando seppi che si era completamente ripreso, che caddi in depressione. Ero fisicamente ed emotivamente distrutta, camminavo come uno zombie. Ero così ossessionata che Evan si ammalasse che pensavo che non lo avrei mai fatto più uscire da casa. Sapevo che dovevo superare quello che avevo passato, ma la paura di perderlo era stata troppo grande. In verità la riprovo ogni giorno.
Seduta nella macchina ripensando a tutto questo, pregai per il bambino di Gina, Elias, che non ce l’aveva fatta. Gli dissi che la sua morte non sarebbe mai stata dimenticata e che questa sua storia l’avrebbero letta in tutto il mondo per aiutare a fare un cambiamento. Dissi ad Elias che lui sarebbe diventato parte di questo cambiamento. Gli chiesi anche di diventare l’angelo custode di Evan, di vegliare sul mio bambino in modo da continuare a mandare entrambi il nostro messaggio forte e chiaro al resto del mondo.
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