Barbara, una nostra mamma, dopo aver letto questa testimonianza che abbimo tradotto da
Age of Autism, ha scritto sul nostro forum: "Spesso i genitori, anche di disabili, guardano chi segue i trattamenti biomedici come degli illusi, che pensano di poter cambiare la "cattiva sorte" o come genitori che non vogliono accettare la malattia del figlio/a. La difficoltà è proprio nella capacità di saper stare nelle due cose insieme. E' un difficile equilibrio, che si esercita costantemente, quotidianamente, in continua evoluzione. La metterei nelle letture consigliate a chi è nuovo nel forum".
Per questo ritorniamo sul tema guarigione, affrontandola dall'ottica di chi non è riuscito ad ottenere i risultati sperati, continuando a sottolineare che si può fare tanto da rendere i nostri figli indistinguibili dagli altri. Il nostro compito, come ha aggiunto un papà, è accettare la loro diversità con amore ma senza rassegnazione.
Grazie a mamma Ann per aver condiviso con noi le sue sensazioni e i suoi pensieri più intimi.
Ultimamente mi fa piuttosto male leggere storie di bambini guariti: mi vergogno ad ammettere che mi provocavano sentimenti di autocommiserazione e di gelosia. Questa non è una di quelle.
Anni fa le storie di guarigione mi riempivano di speranza per mio figlio John, al quale era stato diagnosticato l'autismo nel 2002. Mi ricordo perfettamente che un giorno ero al supermercato, in piedi davanti agli scaffali che contenevano una piccola scelta di prodotti senza glutine (negli anni questa scelta è enormemente aumentata!) quando vidi 8 o 9 ragazzi disabili in gruppo che facevano la spesa accompagnati dai loro assistenti. Uno di questi ragazzi, di circa 21 anni, con capelli biondi ondulati, si fermò a pochi centimetri da me, con le dita piegate in un modo strano davanti al viso, guardando fissamente alcuni prodotti sullo scaffale e gemendo. Rimasi immobile, quasi tremando al pensiero di un futuro del genere, provandone autentico terrore. Poi mi scossi e mi dissi, “John non diventerà così. Noi faremo la dieta e starà meglio!” Riempii il carrello di prodotti senza glutine e caseina e mi diressi verso casa piena di speranza.
I primi anni dell'autismo trascorsero in un turbinio di diete, notti insonni, visite da vari specialisti, prelievi di sangue e risultati dei test, scaffali pieni di una quantità sempre crescente di supplementi, visite in punta di piedi di notte nella sua cameretta per fargli le iniezioni di MB12 senza svegliarlo, terapisti ABA che entravano e uscivano da casa, puzzle e cartoncini per fare gli accoppiamenti che ricoprivano ogni centimetro della casa...insomma, conoscete la scena. Ma nonostante tutti questi sforzi e il tempo speso a passare da un centro educativo che non ci soddisfaceva ad un altro, sembrava che la strada che avevamo davanti fosse veramente lunga e la guarigione dall'autismo un miraggio lontano. Cominciai ad identificarmi sempre meno nei genitori che vedevano miglioramenti immediati con un semplice intervento dietetico, e mi trovai a spendere sempre più tempo sui forum per quelli che venivano chiamati 'tough nut', bambini non-responder.
E' vero, aveva imparato un pò di linguaggio funzionale, ma non abbastanza da consentirgli di vivere in modo indipendente. Le abilità cognitive rimanevano sempre una difficoltà seria e il comportamento migliorava per un pò, per poi ritornare di nuovo ossessivo o con orribili scoppi di rabbia.
Il nostro percorso dopo tutto era stato deludente oltre che enormemente costoso. Sono sicuro di aver fatto allora quello che avrebbe fatto qualunque genitore nelle stesse circostanze: ero stanca e disgustata dalla prova cui ero sottoposta. Ero orgogliosa ovviamente dei risultati di mio figlio, ma sono anche certa di averlo a volte guardato con disapprovazione o frustrazione. Sicuramente dentro di me lo paragonavo senza accorgermene agli alti bambini 'normali' della sua età e anche a coetanei che avevano l'autismo. Non riuscivo ad affrontare tutti quegli scoppi di rabbia con pazienza e voglia di capire; ricordo distintamente infatti i raccapriccianti urli che ogni tanto gli lanciavo contro. Sono certa che a quel punto non gli stavo più dando quelle sensazione di affetto e calore materno che sentivo inizialmente per lui. Per farla breve ero seriamente consumata, distrutta.
Ma, come tutti sappiamo, la vita ha il suo modo di svegliarti, soprattutto quando ne abbiamo più che mai bisogno e non ce lo aspettiamo.Come tanti altri bambini con autismo John aveva sempre amato l'acqua. Avevamo la fortuna di avere una casa dei miei genitori situata su un lago. Per John era un bellissimo diversivo passare una giornata al lago ed era quello appunto che stavamo facendo quel particolare pomeriggio di Agosto. Ero seduta su una sdraio sulla spiaggia, chiacchierando con mia madre che sedeva accanto a me. La nostra conversazione vagava dall'autismo a libri che avevamo appena letto, a recenti incontri con parenti e amici vari (mi ero allontanata dai rapporti familiari da oltre 10 anni ormai in quanto John aveva gravi problemi sensoriali ed era impossibile partecipare ad incontri con la famiglia). Nel frattempo guardavamo John e mio marito giocare nell'acqua. Mio marito si tuffava sott'acqua facendo un gran rumore e poi riemergeva spruzzando l'acqua. John rideva divertito, mettendosi le mani vicino al viso come fa di solito quando è felice. Poi arrivava il suo turno (fare i turni....ehi, un altro obiettivo masterizzato!! Urrà!!). Si tuffava anche lui sott'acqua, andando sotto e riemergendo, guardando poi verso terra per ricevere i nostri complimenti e i nostri applausi. Un giorno perfetto sulla spiaggia, godendoci una attività normale di John, con la possibilità per me di stare seduta a chiacchierare con un altro adulto...un evento per niente solito per chi, come noi, è genitore di un bambino con autismo.
Mio marito andò sott'acqua di nuovo e vi rimase un po' più del solito. John decise che aveva aspettato abbastanza il papà e si tuffò mentre mio marito era ancora sotto. Mia madre e io guardavamo dalla spiaggia, chiacchierando beatamente, finchè entrambe capimmo nello stesso momento che stava succedendo qualcosa. John non riemergeva. Mio marito era appena venuto fuori e si ripuliva il viso dall'acqua guardando dove era finito John. Balzai dalla sedia e corsi nell'acqua. Insieme cercammo sott'acqua e tirammo su il corpo di John, abbandonato e pesantissimo, dal fondo del lago. La sua testa era reclinata all'indietro e noi ci guardammo negli occhi pieni di autentico terrore: il nostro unico obiettivo era percorrere quei metri che ci separavano dalla riva. I suoi 40 Kg di solidi muscoli scivolavano dalla nostra presa e ritornavano sott'acqua e dovevamo risollevarlo velocemente mentre la sabbia che rastrellavamo dal fondo lo appesantiva ancora di più.
In quello che doveva sembrare il salvataggio più maldestro e patetico del mondo, riuscimmo alla fine a raggiungere la riva e a stendere John sulla sabbia della spiaggia. Era diventato un peso morto, non respirava, gli occhi chiusi e un colorito di un pallore bluastro. Urlai a mia madre di chiamare il 118 e lei scappò subito a telefonare. Inginocchiata, accovacciata accanto a quello che mi sembrava essere il corpo morto di mio figlio, un pensiero si fece largo nella mia mente: è questa? È questa la fine? Solo 8 brevi anni di vita con questo meraviglioso bambino e avevo speso la maggior parte di questo tempo provando a risistemarlo? Stava morendo credendo che io non lo avessi mai considerato bravo abbastanza.
Mi disprezzai per tutte le volte che avevo pensato male di lui. Qui steso sulla sabbia accanto a me c'era un bambino che sorrideva a tutti, indipendentemente dai loro difetti o dalle loro pecche. Non giudicava nessuno. Amava anche le persone anziane e offriva loro aiuto. Non portava mai rancore: anche dopo una discussione dava un colpetto leggero sulle nostre braccia per fare pace ed essere perdonato. Come avevo osato pensare che non fosse bravo?
Provai disperatamente a cercare di ricordare quello che avevo imparato anni fa ad un corso di Pronto Soccorso. Mio Dio, erano passati almeno venti anni da allora. Avevo anche comprato un video su “Come salvare il vostro bambino” dopo un incidente in cui John, che allora aveva 3 anni, si stava soffocando, ma con i problemi dell'autismo non avevo mai potuto guardarlo. Ora ero qui, vicino al mio bambino apparentemente morto, con il cervello pieno di adrenalina che cercava di ripassare le varie cose da fare, come pulire le narici, dare un X numero di respiri (non ricordavo quanti), comprimere sui polmoni (quante volte?), girare il corpo di lato.....mi ripetevo questo elenco...e poi lo misi in atto, nel modo credo più rabberciato possibile, e tutto questo credendo che John fosse se non morto, quasi. Pregai anche, mi vergogno di ammetterlo: come Filosofa che si occupa principalmente di esistenzialismo, ho smesso di credere in Dio sin dal college, dichiarandomi atea (penso una cattolica guarita).
Quindi ero lì, che pregavo un Dio in cui non credevo, facendo la respirazione bocca a bocca a mio figlio ormai freddo e cereo, entrambi completamente bagnati, ricoperti di sabbia e di graffi sanguinanti. Non sentii nemmeno le sirene dell'ambulanza e della macchina della polizia, non sapevo nemmeno dove fossero mia madre e mio marito, ero solo occupata in una seria battaglia con me stessa perchè avevo fatto credere a questo angelo che non fosse quello che io volevo. Mi rimproveravo per ogni sguardo di disapprovazione che gli avevo lanciato, quando le sessioni ABA non erano stellari o se si comportava male in un negozio, o quando aveva degli scoppi di rabbia durante i periodi di die-off per antifungali, antibatterici e tutto il resto. Ero stata, dovevo ammetterlo, una madre orribile.
Non so che cosa abbia causato quello che successe dopo (Dio? Fortuna? Sicuramente non il mio terribile tentativo di rianimarlo), ma le sue palpebre sbatterono un po', fece un respiro autonomamente e aprì gli occhi. Mi fissò con aria assente, si lamentò e cominciò lentamente a muoversi. Era vivo! Si, era VIVO!
Avrei avuto una seconda chance, una chance di amarlo ed accettarlo, con il suo autismo grave e tutto. Una chance di tollerare i suoi rituali OCD che mi facevano impazzire, la dieta ristretta, gli scoppi di rabbia, le botte, i pizzichi, le risate e lo sguardo di assoluta fiducia quando i suoi occhi incontravano i miei. Una chance di dimostrargli che non aveva niente di sbagliato in se, ma che invece era amato incondizionatamente.
Nei giorni e nelle settimane che seguirono l'incidente, continuavo ad essere in uno stato di shock e di assoluta disperazione. Non solo avevo perso un sacco di tempo cercando di ricordare come si rianima una persona annegata e non gli ero stata nemmeno vicina abbastanza quando stava facendo il bagno, ma, quel che è peggio, mi sentivo di aver tradito mio figlio nello sforzo incessante di guarirlo. Cominciai a chiedermi se le accuse che ci muovevano fossero giuste, cominciai seriamente a pensare che la gente che ci criticava per tentare di guarire nostro figlio potesse avere ragione. Forse era giusto solo accogliere l'autismo e accettare i nostri bambini esattamente come sono e, con grande serietà, mi chiedevo se dovessi smettere di curare i problemi medici di John, lasciare che i suoi comportamenti autistici facessero il loro corso naturale, smettere di provare a risolvere il danno fatro al suo intero sistema biologico.
Dovevo lasciarlo come era e godermi la vita in qualunque modo potessi?
In qualche modo, aveva senso seguire questa strada.....ma ...
In teoria, ammisi che c'era molto su cui riflettere dal punto di vista etico, ma in realtà avevo accanto un bambino malato dal punto di vista medico. Come potevo ignorare tutte quelle analisi che ricoprivano la mia scrivania e riempivano lo spazio sul mio computer, quei risultati che dimostravano gravi allergie alimentari o quei colorati resoconti che rivelavano un elenco lungo mezza pagina di batteri e patogeni che riempivano il suo tratto intestinale? O i test che indicavano infiammazione intestinale e grave malassorbimento dei nutrienti? E come potevo anche solo supporre di ignorare tutti quei sintomi fisici come strane eruzioni sulla pelle o quel gonfiore addominale che lo facevano sembrare incinta all'ottavo mese? O i mal di testa così forti per cui spesso piangeva urlando “fa male la testa” e la sbatteva così forte sul muro da lasciarci i segni?
No, nel caso di mio figlio ignorare tutti questi problemi medici non era secondo me lontanamente possibile. E quindi, non potevo ignorare il fatto che molti degli interventi dietetici e nutrizionali avevano in qualche modo veramente aiutato almeno un minimo. No, non era guarito, non avevamo risolto, ma dovevo ammettere che stava certamente meglio di quando avevamo iniziato il nostro percorso biomedico: passati gli anni di ininterrotta diarrea (che “per coincidenza” iniziò esattamente dopo il vaccino MMR), grazie ad una dieta ristretta e ai supplementi; passate le pupille eternamente dilatate e quelle orribili notti di pianti senza sosta; passate le febbri altissime che comparivano ogni due o tre giorni; passate le ore e i giorni in cui ci evitava e preferiva andare sotto qualcosa e trascorrere il tempo completamente da solo, battendo la testa sul muro. Al posto di questi problemi, John ha adesso un buon contatto oculare, dice spontaneamente qualche parola funzionale, ha un forte desiderio di socializzazione e un crescente senso dell'umorismo, ma, cosa più importante di tutte, non sembra costantemente sofferente.
La risposta era chiara: ne era valsa la pena, era stato il percorso giusto per lui. Non posso predire il futuro, ma non penso che scriverò mai una di quelle storie di una miracolosa guarigione, abbiamo fatto solo dei passettini in questa direzione. Significa che dobbiamo smettere di provare? Io non penso. Quello che ho capito ora è che in tutti i miei frenetici tentativi di risolvere i problemi medici e comportamentali di John avevo gradualmente trascurato una importante parte dell'equazione: il suo benessere emotivo. Ma so anche che tutto l'amore e l'affetto del mondo non potrebbero riparare il suo cervello e il suo intestino infiammati e profondamente danneggiati. E so per certo ora che quando provo a risolvere i problemi medici che contribuiscono ai suoi problemi comportamentali, non significa che lui non mi piaccia per quel che è e che io voglia che sia qualcun altro. Significa invece che desidero ardentemente che abbia la vita che doveva avere, non impedita da tutti i problemi medici che lo affliggono e lo fanno soffrire.
E così, in questi ultimi anni sto cercando di scoprire come destreggiarmi tra il tentare di riparare i danni fisici e mentali fatti a mio figlio e il fargli costantemente percepire che lui è perfetto per me così com'è. Continuo a mangiare, dormire e respirare i trattamenti biomedici, continuo a ricercare e a provare, se appropriati (e accessibili), molte delle nuove terapie che evolvono e, parafrasando le parole di un altro genitore, se rotolarsi nello sterco di mucca potesse aiutare mio figlio a stare meglio, lo farei senza esitazione. Ma quello che è cambiato dal momento dell'incidente è un esaminare di più come ogni approccio può influire direttamente su John: invece di provare qualunque intervento gli esperti dicono che funzionerà, adesso sono un pochino più cauta e più attenta a come il nuovo trattamento che provo fa sentire John fisicamente, certo, ma soprattutto dal emotivamente e spiritualmente. E se questo significa eliminare un supplemento che si suppone possa aiutarlo, ma invece lo fa sentire male o depresso, bhe ... non esito a farlo. Molto semplicemente sto imparando a pormi questa domanda: lo sto stressando troppo, lo faccio sentire più solo o inadeguato, o lo sto aiutando a sentirsi più unito a noi e a tutti gli altri?
Sono passati più di tre anni e mezzo da quel quasi annegamento e molti dei dettagli di quel giorno sono scomparsi dalla mia memoria, ma ricordo una cosa per certo e, anche se è assolutamente ovvia, la dico lo stesso: non volevo che lui morisse (e non lo voglio). E anche se l'occuparsi quotidianamente di un bambino con autismo può essere fortemente frustrante e può far perdere la pazienza (e sto scrivendo in una giornata buona!), continuo sempre a ricordare a me stessa di smettere di focalizzarmi sul futuro e di cercare disperatamente la guarigione per John, e di pensare invece alle esperienze che stiamo condividendo momento per momento.
E forse non ci vorrà un incidente quasi mortale per farmi prestare attenzione a quello che è veramente importante e, anche se non riusciremo a raggiungere l'inafferrabile obiettivo della guarigione, spero di poter dire alla fine che ho trascorso i miei minuti, le ore ed i giorni godendomi mio figlio per quello che è. Mi auguro di continuare ad andare avanti, magari incespicando, a volte cadendo, a volte sentendomi persa, ma proseguendo in questo cammino.
Solo che ora sono sicura che ci ricorderemo di fermarci per ammirare il paesaggio lungo la strada.